
Perché un esperto di relazioni si interessa alla Pratica Collaborativa – 1 puntata
La pratica collaborativa prevede di coinvolgere, nel processo di definizione di accordi di separazione condivisi, un professionista con competenze atte a facilitare la comunicazione tra le parti.
Tale figura deve avere un background formativo ed esperienziale nel campo psicologico e/o della mediazione familiare. Il ruolo del facilitatore (chiamato anche coach) propone, a chi si occupa dei porcessi comunicativi, nuove interessanti ed affascinanti sfide.
Proverò ad evidenziarne alcune, seppur con il limite di poterle solo accennare.
Il primo compito che si trova ad affrontare un esperto di relazioni è quello di tipo diagnostico, non nel senso stretto di una valutazione psicologica della personalità, ma nel senso di verifica delle competenze relazionali delle parti coinvolte e della loro motivazione a partecipare alla procedura collaborativa.
Il secondo compito è quello di mediatore dei processi comunicativi di tipo conflittuale: a differenza di quanto avviene nella mediazione familiare, questa funzione risulta ancora più complicata perchè oltre a porre la propria attenzione sulle parti, il coach agisce in un contesto nel quale agiscono anche gli avvocati delle stesse, possibili portatori anch’ essi di possibili conflittualità.
Da qui ne consegue che il coach deve essere in grado di riconoscere e gestire le possibili alleanze implicite che possono intercorrere tra tutti i soggetti coinvolti. Tale attenzione deve essere posta non perchè le alleanze non siano opportune, ma perchè quando non equlibrata potrebbe sbilanciare il sistema verso vissuti ad esempio di tipo persecutorio (si pensi al caso in cui una parte viva il proprio avvocato come alleato con l’altro nel promuovere determinate scelte a lui non gradite).
Importante è anche la funzione indispensabile di far emergere le istanze emotive delle parti in modo non rivendicativo o aggressivo al fine di tenerne conto nella definizione degli accordi, garazia indispensabile per la tenuta stessa degli accordi.
Infine, la possibilità di collaborare in una forma nuova con gli avvocati portatori di competenze necessarie, ma molto spesso assenti nel nella setting della mediazione familiare, tuteli meglio i clienti e noi mediatori.
Credo che quanto messo in evidenza nelle poche righe precedenti, ben illustra come il facilitatore della comunicazione, nel momento in cui è immerso nel processo collaborativo, sia coinvolto in un campo di forze ad alto livello di complessità. E’ questo, a mio giudizio, l’aspetto più affascinante del ruolo a noi richiesto. La complessità è anche una forte spinta alla formazione personale, alla ricerca e all’integrazione di competenze sistemiche e psicodinamiche utili a integrare le competenze degli avvocati per trovare soluzione nuove, originali e condivise nelle relazioni conflittuali.
di Andrea Salza