VIAGGIO ALL’INTERNO DELLA NEGOZIAZIONE
in tre tappe, Firenze, Venezia, Torino e una destinazione, Milano
Appunti di viaggio dalla seconda tappa, Venezia, 17 novembre 2023
Come si negozia nella Pratica Collaborativa
Un raffronto con la negoziazione assistita (d.l. 12.09.2014 n.132)
- CHE COS’E’ LA PRATICA COLLABORATIVA – avv. Rita De Marco
La Pratica collaborativa è una procedura stragiudiziale che ha le sue radici storiche negli Stati Uniti, dove nacque all’inizio degli anni Novanta grazie ad un collega (avvocato familiarista di Minneapolis), Stuart Webb, che, riflettendo sul ruolo dell’Avvocato nel processo della famiglia, ha cominciato ad elaborare un nuovo approccio al conflitto familiare basato su alcuni principi base che qui di seguito io e la collega Pianezzola andremo ad illustrare, specificando perché e come si differenziano da quelli relativi alla procedura di Negoziazione Assistita.
Innanzitutto, a mio parere, prima di evidenziare i principi e le differenze tra la Pratica Collaborativa e la Negoziazione Assistita è necessario distinguerne la differente RATIO.
- La negoziazione assistita viene istituita con decreto legge n. 132 del 2014 convertito in legge n. 162 del 2014 ed inserita nel capitolo delle “Misure urgenti di de-giurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”.
Il suo inserimento nel citato capitolo ci permette dunque di individuarne la “RATIO” ovvero la necessità di lasciare fuori dai Tribunali il maggiore numero di controversie. Non a caso infatti, per incentivarne il suo utilizzo, a vantaggio di uno sgravio del carico giudiziario, il legislatore ha inserito “l’obbligo” per alcune specifiche materie (è obbligatoria per legge in caso di risarcimento dei danni da circolazione di veicoli e natanti, o per il pagamento a qualsiasi titolo di somme che non superino i cinquantamila euro), esattamente come è stato fatto per il medesimo scopo con riferimento all’uso della Mediazione Civile e Commerciale.
Oltre a questa esigenza nulla viene richiesto dal legislatore ai professionisti che la praticano, nel senso che nessuna specifica formazione è richiesta. Dunque, pur riconoscendo il valore di questo prezioso strumento che ha investito gli avvocati di un importante ruolo di autonomia e d’indipendenza negoziale (ancor di più nella versione revisionata della Riforma Cartabia), manca l’attenzione del legislatore sul “come” le parti giungono all’accordo.
Quello che possiamo osservare è che la procedura di Negoziazione richiede che siano applicati nel rapporto tra le parti ed i colleghi i principi generali di correttezza e buona fede che, come sappiamo, animano o dovrebbero animare tutti i rapporti contrattuali secondo il codice civile (citiamo per esempio nella materia contrattuale la buona fede è menzionata dal codice all’art. 1337 c.c. sulla formazione del contratto, all’art. 1366 c.c. sulla sua interpretazione, ed all’art. 1375 sulla sua esecuzione), ed animano il rapporto professionale tra colleghi (per esempio l’art. 19 codice deontologico ci parla di dovere di lealtà e correttezza , all’art. 50 codice deontologico si parla di dovere di verità). Null’altro.
Al contrario invece,
La pratica collaborativa nasce con altra esigenza ed intenzione e cioè quella di recuperare il RUOLO SOCIALE DELL’AVVOCATO per rispondere ad un’esigenza sociale, nazionale, mondiale di pacificazione e coesione sociale.
L’intento della Pratica Collaborativa è dunque quello di accompagnare le famiglie / le aziende/ le persone in crisi e/o che vivono in un contesto conflittuale, a recuperare e ricostruire una relazione perduta /fallita aprendo lo spazio ad una trattativa basata sulle persone , sul dialogo , con lo scopo di RESTITUIRE ALLA SOCIETA’ famiglie serene /coese/collaborative, famiglie che non vivono nella rabbia e rancore, famiglie che sono state capaci di trasformare una “rottura” in una “opportunità”.
Questo vale anche per le aziende, per i soci, per i fratelli che imparano e riescono a gestire passaggi generazionali, divisioni societarie etc. in quanto la pratica Collaborativa oggi ( dopo ben 13 anni dal suo ingresso in Italia grazie a visionarie colleghe familiariste che hanno fondato l’associazione AIADC solo per la sua utilizzazione nell’ambito della famiglia, dunque nella crisi di coppia, separazione /divorzio affidamento etc….) è pronta per essere utilizzata in altri contesti conflittuali come quello aziendale, commerciale, ereditario, condominiale, contrattuale il cui beneficio porta un vantaggio sociale in generale ed alle famiglie coinvolte in particolare.
- La pratica Collaborativa dunque non solo ha una RATIO differente dalla negoziazione assistita, ma altresì rappresenta un diverso e innovativo metodo di lavoro che coinvolge altri professionisti e non solo gli avvocati come meglio ci spiegherà la collega Pianezzola a breve.
La Pratica Collaborativa quindi trascende la logica dei sistemi avversariali e prevede un lavoro di negoziazione in cui tutti gli aspetti del conflitto – legali, economici, emotivi e relazionali – sono affrontati in modo approfondito e condiviso.
2. LA FORMAZIONE SPECIFICA – Avv. Daniela Pianezzola
A differenza della negoziazione assistita, che può essere svolta da qualsiasi avvocato in quanto tale, la pratica collaborativa si fonda su una formazione specifica: i professionisti abilitati, infatti, non solo devono seguire un apposito corso introduttivo, ma devono continuare a formarsi in via continuativa.
Ciò è tanto vero che la nostra associazione prevede delle riunioni (i c.d. practice group) quantomeno mensili tra professionisti della stessa città o di città gemellate, al fine di consentire una interlocuzione continua e frequente sui temi che più spesso si pongono nello svolgimento della pratica collaborativa.
Volendo azzardare un’ipotesi sulla ragione per cui la negoziazione assistita non è decollata nella prassi, a mio avviso ciò dipende – oltre che dalla eccessiva “procedimentalizzazione” dell’istituto, specie con riferimento ai limiti temporali imposti dal legislatore – proprio dal fatto che manca una formazione specifica in primis tra gli avvocati. Per gli appartenenti al ceto forense è infatti particolarmente difficile riconoscere che negoziare non è innato, ma richiede una formazione mirata, specie in un ambito delicato qual è quello familiare, dove gli interessi coinvolti non sono meramente patrimoniali e dove bisogna tenere presenti anche i bisogni di soggetti che tradizionalmente non hanno voce al tavolo, quali i minori.
Al contrario, la formazione specifica dell’avvocato collaborativo fa sì che questo sia in grado di aiutare il proprio cliente a individuare gli interessi che stanno dietro le posizioni, a fare delle scelte che si proiettino sul lungo periodo, a suggerire soluzioni che creino valore, agevolando in tal modo il raggiungimento di accordi capaci di durare nel tempo, in quanto costruiti intorno alle reali esigenze delle famiglie.
2 bis) NEGOZIARE NON È UNA CARATTERISTICA INNATA – avv. Rita De Marco
È bene ricordare a noi tutti che negoziare non è una caratteristica innata, o meglio: c’è chi è predisposto alla negoziazione per cultura e per impostazione caratteriale, ma non tutti lo sono.
Saper negoziare, prendendosi cura di ogni aspetto anche personale che ruota attorno al conflitto richiede una preparazione specifica che, come ha appena detto la collega Pianezzola, la Pratica Collaborativa esige sia nella fase iniziale di apprendimento della Procedura, sia nella fase di cosiddetto “mantenimento” di tale apprendimento iniziale.
Ciò significa che i Professionisti collaborativi devono in primis partecipare ad una specifica formazione iniziale e proseguire implementando la stessa (formazione puntualmente monitorata dall’Associazione AIADC) non solo con una formazione continua ma anche attraverso la partecipazione costante agli incontri di Practice Group e attività di formazione continua per avere un’evoluzione delle proprie specifiche abilità nella gestione del conflitto.
Questo con lo scopo di garantire che il professionista collaborativo risponda ai principi di preparazione ed efficienza che questo tipo di percorso deve garantire trattando spesso con materiale umano altamente sensibile.
Va da sé quindi ritenere la formazione professionale un quid necessario ed indispensabile per saper ben negoziare. Questo concetto tra l’altro lo ritroviamo anche nel Decreto legislativo 28/10 che si occupa dell’istituto della Mediazione Civile e Commerciale nel quale all’art. 16 punto 4-bis viene affermato in via generale che: “Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori” … ma poche righe dopo precisa che:
“Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 62 del codice deontologico forense”.
Sulla questione di una necessaria formazione inziale e formazione continua ancora più stringente è il nuovo DM. 151/23 nella parte in cui richiede una formazione adeguata dei mediatori nuovi.
Quindi lavorare in precisione di un buon accordo confezionato su misura che dura nel tempo, come si cerca di fare con la pratica collaborativa, ci permette di evitare il contenzioso con ciò favorendo la DEFLAZIONE grazie ad un lavoro svolto “prima” non “dopo” il carico giudiziario.
3. LE CARATTERISTICHE DELLA PRATICA COLLABORATIVA
- Il mandato limitato – avv. Daniela Pianezzola
Il mandato limitato è un istituto tipico della pratica collaborativa che la distingue in maniera peculiare dalla negoziazione assistita.
Mandato limitato significa che i legali delle parti si impegnano a non difenderle nel corso dell’eventuale giudizio che dovesse svolgersi in caso di fallimento della pratica.
Grazie al mandato limitato – che deve ovviamente essere ben spiegato alle parti nella sua portata – da un lato i legali sono maggiormente stimolati a cercare di raggiungere un accordo senza far saltare il tavolo, dall’altra parte lo sono anche i protagonisti del percorso (e quindi le parti), per le quali è sempre spiacevole dover cominciare daccapo a raccontare la loro vicenda ad un altro legale e che quindi sono incentivate a cercare di raggiungere un’intesa.
2. La presenza delle parti nella Pratica Collaborativa e nella Negoziazione Assistita – avv. Rita De Marco
Un elemento importante della Pratica Collaborativa è la costante presenza personale delle parti in tutto il percorso. Le parti solo al centro della Pratica Collaborativa e in questo percorso sono sostenute, accompagnate dall’avvocato (a cui non viene “delegata” in toto la loro difesa come normalmente accade) il quale si pone in una posizione di affiancamento o addirittura dietro al proprio assistito/a in quanto è la parte che viene responsabilizzata a promuovere con impegno personale quanto necessario ed indispensabile per la co-creazione di un nuovo progetto familiare.
Non c’è alcuna delega in “bianco” come accade nelle procedure ordinarie, non c’è la paura di cosa può accadere all’improvviso; il clima che si crea è di fiducia reciproca non solo tra le parti ma anche tra colleghi. Si costruisce un preaccordo con regole di comportamento da rispettare in tutto il percorso di pratica collaborativa, specificando che se queste regole non sono rispettate la Procedura viene interrotta.
Le parti sono al centro e non lasciano che siano altri a decidere per la propria famiglia perché sono consapevoli di essere gli unici a conoscerne le vere e più profonde esigenze. Per questo ogni accordo concluso non può essere standardizzato e /o uguale ad un’altra famiglia perché l’accordo è come cucire un vestito su misura per quella specifica famiglia.
Inoltre le parti sono sempre presenti nel processo collaborativo ad ogni incontro che viene programmato con un ordine del giorno chiaro e preciso proprio per dare organizzazione e pianificazione chiara del lavoro da svolgere.
L’avvocato collaborativo lavora in squadra con gli altri professionisti nel processo collaborativo perché come già detto ha l’obiettivo di facilitare il raggiungimento di un accordo legale che soddisfi realmente le esigenze, i bisogni e gli interessi di ogni persona coinvolta.
E’ molto importante ricordare che questo approccio evita prevaricazioni, soluzioni imposte o affrettate, ma soprattutto evita che siano altri a scegliere per loro. Di qui la durata dell’accordo.
Nella negoziazione assistita anche per la mia esperienza, in materia di famiglia, ma anche in materia di diritto del lavoro (di recente novità della Cartabia) l’istituto viene utilizzato dai colleghi solo per formalizzare accordi gestiti con il metodo tradizionale, con spirito negoziale tradizionale rivolto non tanto ai bisogni ed al benessere delle parti ma alla sola chiusura di un accordo.
3. La presenza del Facilitatore e degli Esperti nella Pratica Collaborativa – avv. Daniela Pianezzola
Altra caratteristica peculiare della pratica collaborativa è data dal fatto che, oltre agli avvocati (uno per ciascuna delle parti), ad essa partecipano degli esperti neutrali, equidistanti dalle parti, chiamati a dare il loro contributo in vista dell’individuazione di un accordo quanto più possibile confacente agli interessi delle parti e dei minori eventualmente coinvolti.
Di questi esperti quello la cui presenza è sempre necessaria nella pratica collaborativa, in quanto vero e proprio perno ed elemento caratterizzante della stessa, è il cosiddetto Facilitatore della comunicazione (normalmente uno psicologo), che ha il precipuo compito di riattivare il canale comunicativo che si è interrotto tra le parti (ogni crisi infatti è frutto di una siffatta interruzione) nonché di intervenire in tutti i quei momenti di empasse che nel corso della pratica si possono verificare.
Del team collaborativo possono poi fare parte ulteriori professionisti il cui apporto verrà richiesto sulla base delle specifiche esigenze della coppia.
Particolarmente significativo, infatti, è l’apporto che – ogni qualvolta si tratti di dirimere una questione che coinvolge il patrimonio e i redditi della famiglia – può essere apportato dall’Esperto finanziario.
Al riguardo segnalo che non è assolutamente detto che l’Esperto finanziario sia necessario solo in presenza di grandi patrimoni: al contrario, può essere opportuno il suo aiuto proprio quando si tratti di far “tornare i conti” della famiglia nel momento in cui, con la cessazione della convivenza, la coperta si sarà necessariamente accorciata.
Inoltre, nel caso in cui nel conflitto siano coinvolti dei minori, molto utile sarà l’apporto dell’Esperto del bambino (tipicamente uno psicologo con una specifica preparazione in materia di età evolutiva), che porterà al tavolo la voce e le esigenze dei figli, aiutando i genitori a considerarli in modo obbiettivo e non distorto in funzione delle loro posizioni.
4. Lealtà, buona fede e trasparenza – avv. Rita De Marco
Con la sottoscrizione dell’accordo di partecipazione le parti si impegnano a negoziare e a comportarsi con buona fede e correttezza, evitando comportamenti finalizzati a forzare la volontà dell’altra parte, quali ad esempio la minaccia di ricorrere all’autorità giudiziaria in via contenziosa; non è consentito sfruttare eventuali fraintendimenti, non si può utilizzare un linguaggio aggressivo o minaccioso, va tenuto un comportamento leale, trasparente e rispettoso delle altre parti e dei professionisti coinvolti.
Principio strettamente connesso alla buona fede, la trasparenza può definirsi come l’obbligo di condividere qualsiasi documento o informazione rilevante, cioè potenzialmente capace di influenzare valutazioni o decisioni dell’altra parte. Questa condivisione deve avvenire a prescindere da qualsiasi richiesta, e serve a consentire alle parti di raggiungere la piena consapevolezza di ogni aspetto necessario e/o utile per una negoziazione efficace.
Per molto tempo abbiamo gli avvocati che per la prima volta si avvicinano alla Pratica Collaborativa vedono non di buon occhio tale principio in quanto assaliti dal dubbio circa la compatibilità dell’agire correttamente in difesa del proprio assistito e il principio della trasparenza nello scambio delle informazioni fra le parti richiesto dalla Pratica Collaborativa.
Quello della trasparenza delle informazioni è in effetti un tema delicato ( tra l’altro oggi è stato superato dalla Riforma Cartabia con l’art. 473bis.12 cpc che sulla questione fiscale e patrimoniale risalente agli ultimi tre anni ha dato una linea di indirizzo chiara) in quanto l’impegno che le parti assumono di dirsi tutto – ad esempio, dichiarare le risorse economiche ed i redditi effettivi, ammettere eventuali relazioni extraconiugali, informare circa determinati stati di salute – per mettere l’altro in condizione di assumere una decisione consapevole di solito, al primo impatto, spaventa moltissimo.
È altrettanto vero però che la necessaria trasparenza delle informazioni rende possibili accordi consapevoli, magari dolorosi ma affrontando la verità/ realtà. Certo non si può dire la stessa cosa quando le scelte e gli accordi vengono raggiunti a causa di omissioni intenzionali e maliziose o manipolazioni ad arte per indurre il partner ad accettare soluzioni diverse da quelle che si sarebbero pretese, se a conoscenza dei dati reali.
Una vittoria basata sulla falsa rappresentazione della realtà, ottenuta approfittando delle asimmetrie informative e/o probatorie fra le parti, potrebbe, infatti, risultare il provvisorio e fallace traguardo di chi non si è posto il problema della possibilità, da parte del danneggiato da tale comportamento, di rimuovere sentenze ingiuste anche se passate in giudicato.
5. La riservatezza
La trasparenza ha come necessario pandant la riservatezza, dovendo tutte le informazioni che vengono acquisite nel corso della pratica collaborativa essere mantenute riservate.
Riguardo alla riservatezza ritengo opportuno citare in primo luogo gli standard etici AIADC per i professionisti collaborativi che all’art. 4 stabiliscono espressamente quanto segue:
“il professionista collaborativo non divulgherà informazioni riguardanti il cliente di cui è venuto a conoscenza durante il procedimento collaborativo salvo che:
- vi sia il consenso di tutti i clienti interessati;
- la divulgazione sia richiesta dalla legge;
- il professionista abbia una ragionevole convinzione che il cliente possa danneggiare persone o cose;
- vi sia una controversia o una contestazione riguardante il lavoro o gli onorari del professionista durante la pratica collaborativa.”
Con riferimento alla riservatezza, ritengo anche opportuno segnalare una pronuncia (la n. 277033.12.2020) con cui la Cassazione ha riconosciuto all’avvocato “la facoltà di astensione dalla testimonianza in giudizio, anche con riferimento alle conoscenze acquisite in ogni fase dell’attività professionale, sia contenziosa che non, e il presupposto oggettivo connesso allo svolgimento dell’attività svolta non è circoscritto alla sola ipotesi in cui egli abbia assunto la veste di difensore nel processo”: grazie a questa pronuncia, quindi, il legale potrebbe senz’altro rifiutare di rendere testimonianza in un processo in cui venisse citato come testimone con riferimento a circostanze apprese nel corso della pratica collaborativa.
Il principio affermato dalla Cassazione costituisce quindi un indubbio baluardo a tutela della tutela della riservatezza delle informazioni scambiate in sede di Pratica Collaborativa.
A cura di
Avv. Rita De Marco e Avv. Daniela Pianezzola