VIAGGIO ALL’INTERNO DELLA NEGOZIAZIONE
in tre tappe, Firenze, Venezia, Torino e una destinazione, Milano
Appunti di viaggio dalla terza tappa, Torino, 24 novembre 2023
I Principi della Pratica Collaborativa
Con l’introduzione degli strumenti di giustizia consensuale (mediazione, negoziazione assistita, composizione negoziata della crisi d’impresa, tra i principali) il legislatore italiano ha indicato agli avvocati in primis, ma anche più in generale al mondo delle professioni, la necessità di dotarsi di competenze nuove idonee ad affrontare una modalità di gestione della conflittualità che è sempre più lontana dalle aule di giustizia.
La creazione per legge di nuovi contenitori in cui amministrare le liti, diversi per concezione, procedura e risultato atteso, impone l’acquisizione di nuovi e diversi metodi di approccio professionale che strutturino il contenuto funzionale di tali nuovi spazi.
Noi professionisti collaborativi pensiamo che la conoscenza delle tecniche di negoziazione collaborativa attribuisca a chi le studia gli strumenti fondamentali per operare con professionalità e competenza nel mondo della giustizia consensuale.
Il modo migliore per accostarsi alla conoscenza della Pratica Collaborativa è quello di partire dalla storia di colui che ne è il padre spirituale.
Nel 1990 un avvocato del Minnesota di nome Stuart Webb scrisse una lettera all’onorevole Sandy Keith, Giudice della Corte Suprema.
Stuart Webb è un avvocato familiarista, abituato quindi ad operare nel settore del diritto nel quale la conflittualità è spesso più alta ed esasperata, ma che è per ciò stesso una straordinaria palestra di sperimentazione delle dinamiche conflittuali.
Stuart Webb scrisse al giudice Keith che egli si era reso conto che, quando gli capitava di condurre una trattativa con colleghi che non si ponevano in modo aggressivo, risultava estremamente più facile costruire un ambiente favorevole per la realizzazione di accordi e raggiungere risultati creativi e soddisfacenti per tutte le parti.
Lui si chiese quindi “Perché non creare questo ambiente deliberatamente?” ed annunciò, con la sua lettera, la sua intenzione, per il futuro, di non fare più processi e di accettare soltanto incarichi finalizzati al raggiungimento dell’accordo.
Disse che progettava di riunire un gruppo di avvocati disposti a lavorare allo stesso modo ed annunciò che questi avvocati si sarebbero chiamati “avvocati collaborativi”.
La Pratica Collaborativa è nata da questo semplice pensiero rivoluzionario: se tolgo la minaccia del processo dall’orizzonte della trattativa, mi posso concentrare sul modo migliore per risolvere i problemi senza rimanere coinvolto nella escalation emotiva che nasce dal frequente scambio di contestazioni e minacce che è tipico della modalità avversariale.
Da questa idea di partenza è nato un metodo vero e proprio di negoziazione dei conflitti che si basa su alcuni principi fondanti che vengono inseriti nell’accordo di partecipazione sottoscritto dalle parti e dai loro legali all’inizio della trattativa:
- L’obbligo di formazione degli avvocati alla negoziazione non avversariale e al lavoro interdisciplinare
- L’incarico ai legali limitato alla sola negoziazione, con esplicita esclusione della partecipazione al processo
- La partecipazione delle parti alla negoziazione
- L’impegno di tutti a trattare in buona fede e trasparenza
- La riservatezza della trattativa
Passaggio ulteriore è stato l’estensione della formazione collaborativa a tutti i professionisti che possono sedere al tavolo della negoziazione (facilitatori, mediatori, commercialisti ecc.), così da costruire un linguaggio e una conoscenza comuni e da strutturare percorsi professionali e relazionali che consentano di attuare una effettiva interrelazione tra le professioni. La formazione specifica alla collaborazione comprende quindi non solo le tecniche di negoziazione non avversariale, ma anche le modalità operative del tavolo interprofessionale. Per citane alcune: la preparazione degli incontri, la loro gestione, le modalità di scambio delle informazioni, il continuo debriefing sui vari passaggi della negoziazione, l’applicazione della buona fede e della trasparenza, la disponibilità alla critica costruttiva, il lavoro in rete sulle emozioni che si manifestano nel corso della negoziazione, il supporto incrociato nella gestione delle trattative.
Non più quindi soltanto un affiancamento tra professioni diverse, ma una vera e propria metodica dell’interrelazione ed integrazione dei diversi saperi sulla base di una scienza negoziale condivisa.
L’impatto della Pratica Collaborativa in Italia
Quando, nell’ormai lontano 2010, la Pratica Collaborativa venne introdotta in Italia, alcuni dei principi su cui si fonda (in particolare l’obbligo di assunzione di un mandato limitato alla negoziazione e l’obbligo di negoziare secondo trasparenza e buona fede) venivano percepiti da molti professionisti come eccessivamente rigorosi.
Oggi, anche a seguito dell’evoluzione normativa che sta sempre più potenziando il ricorso ai metodi di giustizia consensuale, quei principi appaiono molto più comprensibili.
Così come il mediatore non pretende di porsi per le stesse parti anche nel ruolo di arbitro o di giudice, perché ciò snaturerebbe la sua funzione di mediatore, altrettanto il professionista collaborativo perderebbe tutta la sua credibilità se pretendesse di cambiare cappello e di gestire in modo avversariale un caso nel quale si è speso come negoziatore di buona fede.
Del resto, chi sceglie la strada della giustizia consensuale e ne acquisisce le competenze necessarie si sentirà via via sempre più lontano dalla logica processuale e avversariale, anche qualora non avesse assunto l’obbligo preciso di non assistere le parti in processo.
Nello stesso tempo, la competenza di negoziazione collaborativa, anche quando si opera al di fuori della cornice più rigorosa prevista dall’applicazione ortodossa del metodo, è diventata essenziale per muoversi in modo competente e consapevole nell’ambito dei nuovi strumenti di giustizia consensuale.
È infatti evidente che tanto più strumenti come la mediazione o la composizione negoziata della crisi di impresa riusciranno ad operare in modo efficace quanto più tutti i professionisti coinvolti (non quindi solo il mediatore o l’esperto della crisi) sapranno lavorare in sinergia, utilizzando sia le tecniche di negoziazione non avversariale, sia gli strumenti di collaborazione tra professionisti che la Pratica Collaborativa ha teorizzato ed elaborato nel corso degli anni.
Quello che quindi nei primi tempi appariva come un metodo per pochi, una sorta di hortus conclusus in cui pochi iniziati facevano cose molto diverse da quelle che accadevano nel mondo normale, può ora diventare il metodo evoluto e maturo per operare nelle ADR giuridicamente normate. È quindi tempo che la negoziazione collaborativa diventi patrimonio di tutti.
Caratteristiche della Negoziazione Collaborativa
Ma come si supera la logica della contrapposizione? Proprio mediante il paziente lavoro cooperativo di professionisti che hanno una formazione comune e che, anche quando affiancano una parte, non vedono nell’altra parte il nemico da combattere: il nemico è piuttosto il problema da risolvere, e la negoziazione collaborativa si pone l’obiettivo di affrontarlo in modo multidisciplinare, con un metodo fondato su una forte alleanza professionale e con le parti, senza la minaccia di un giudizio terzo (che anche sulla mediazione spesso un po’ incombe, in quanto il mediatore e i legali coinvolti hanno diversa formazione e percorsi professionali) che può finire per generare sfiducia nel metodo, magari attribuendo all’altra parte o ai professionisti la volontà di ostacolare l’accordo.
Nel modello collaborativo “ortodosso” le parti, assistite ciascuna dal proprio avvocato (ma in un conflitto societario potrebbe essere anche un commercialista: ampliando l’ambito di applicazione il modello deve necessariamente diventare più flessibile), si siedono a un tavolo al quale discutono del proprio futuro; in questo la Pratica Collaborativa è smile alla mediazione, ma presenta anche alcune importanti differenze: la formazione comune degli avvocati a una negoziazione non avversariale; la rinuncia, ab origine, dei professionisti ad assistere le parti in giudizio se la negoziazione non va a buon fine; il patto sulla trasparenza; l’ingaggio di professionisti neutrali che hanno un ruolo diverso da quello del mediatore.
Quando si negozia nell’ambito di rapporti che debbono essere preservati (immaginiamo l’ambito dell’impresa, dei contratti di lunga durata, del mondo del lavoro solo per fare qualche esempio) è indispensabile saper lavorare sulla costruzione di fiducia o almeno sul mantenimento di quel tanto di relazione che può consentire di realizzare soluzioni sostenibili.
L’intento ultimo è quello preservare rapporti che possono generare valore (quante imprese vengono distrutte da conflitti fra soci, da dissapori familiari nelle compagini societarie e nei passaggi generazionali, dalla rottura di matrimoni, da liti tra fratelli, tra cugini?), costruendo accordi sostenibili e duraturi fondati su una fiducia costruita o ricostruita (non necessariamente fra le parti, ma nel metodo e nell’efficacia del percorso) grazie al lavoro di pazienza condotto in una sorta di danza guidata dai professionisti che privilegia l’ascolto, l’esplorazione degli interessi, l’attenzione alle emozioni.
Ecco allora che i principi della negoziazione collaborativa diventano alleati utili anche là dove si opera al di fuori di un rigoroso accordo di partecipazione. Anche se il mandato non è limitato alla negoziazione, una solida formazione collaborativa e non avversariale consentirà di analizzare in modo deontologicamente corretto se nel corso della trattativa si siano disvelate informazioni riservate che rendono inopportuna la prosecuzione dell’assistenza in ambito processuale.
Allo stesso modo, il professionista dotato di accurata formazione negoziale saprà analizzare con il cliente se vi siano informazioni che non possano essere taciute al fine di realizzare una negoziazione leale di buona fede e saprà anche illustrare al cliente perché ed in che modo e con quali cautele le informazioni possano e debbano essere comunicate.
I professionisti dotati di adeguata formazione negoziale, ciascuno nel proprio ruolo – di advocacy o neutrale – sapranno ascoltare le parti per raccogliere i loro veri interessi e saranno capaci di non operare attraverso modelli automatici di contrapposizione, e cercheranno piuttosto di abbassare la conflittualità, ascoltando i bisogni di tutti, lavorando in modo costruttivo, immaginando soluzioni win-win, lasciando infine anche le parti libere di costruire le loro soluzioni senza imporre le proprie.
L’applicazione della negoziazione collaborativa nell’ambito delle attività di impresa
Nella nostra nuova realtà socioeconomica in cui il fine dell’attività di impresa non è più la maggior redditività possibile per l’imprenditore, ma è invece la strutturazione di un sistema economico sostenibile nel medio e lungo periodo e la sua efficacia per tutti gli stakeholder, un sistema di gestione dei conflitti basato soltanto sull’intervento del giudice non può considerarsi adeguato, sia per i tempi insostenibili, sia perché la decisione del giudice implica molto spesso un intervento demolitivo dei rapporti, in quanto può intervenire solo con modalità di risoluzione o risarcimento. È dunque necessario crescere una nuova categoria di professionisti che siano capaci di intervenire nel conflitto e nella negoziazione in modo interdisciplinare e costruttivo, con la capacità di preservare relazioni ed incentivare la costruzione o la ricostruzione di rapporti, anziché la loro dissoluzione.
Sia che si tratti della negoziazione dei contratti, della gestione dell’impresa e delle relazioni di lavoro, della costruzione di efficaci modelli ESG, sia che si operi nell’ambito della composizione negoziata della crisi d’impresa, sia che si avvii una mediazione o una negoziazione assistita in ambito commerciale, non si può immaginare di operare in modo efficace se i professionisti coinvolti non hanno competenza specifica nella negoziazione non avversariale e non condividono un linguaggio comune interdisciplinare.
Come in una sala operatoria, ciascuno ha la propria competenza, ma tutti si lavora in sintonia con il fine di curare e guarire.
In questa prospettiva la negoziazione collaborativa è di gran lunga il metodo più efficiente ed efficace di prevenzione e gestione dei conflitti.
Ad esempio, in ambito contrattuale l’approccio non avversariale consente di strutturare i contratti utilizzando un’impostazione che valorizzi la finalità costruttiva che presiede alla stipulazione del contratto e ne renda agevole l’applicazione, anziché partendo dal principio di sfiducia, che è proprio del professionista patologo. Ciò significa costruire clausole di chiara interpretazione, prive di ambiguità, facili da leggere e da applicare e significa anche prevedere nell’ambito dello stesso contratto (così come negli statuti societari) modalità di gestione dei conflitti di tipo conservativo anziché distruttivo.
Ciò è tanto più rilevante qualora si consideri che lo scenario socioeconomico in cui stiamo vivendo, caratterizzato da continui sconvolgimenti che impattano fortemente sull’equilibrio dei rapporti commerciali, impone di aprire spazi alla rinegoziazione dei contratti e richiede quindi anche che i professionisti si pongano fra loro e con i clienti che assistono in una relazione di tipo collaborativo che consenta di immaginare soluzioni sempre nuove, originali, adattabili e conservative.
Strumenti e metodi di giustizia consensuale, preventiva e risolutiva
Il modello collaborativo non è, quindi, solo un setting “ideale” per le controversie familiari bensì un contesto in cui possono trovare composizione interessi differenti e anche antagonisti in ogni fase del confronto dialettico che muove le dinamiche economiche e sociali.
Nella tappa torinese del Viaggio all’interno della negoziazione promosso e guidato dall’Associazione italiana professionisti collaborativi si è parlato di utilizzo dell’approccio collaborativo non solo nella composizione dei conflitti in atto, ma anche di prevenzione di controversie potenziali: ad esempio negoziando collaborativamente nella redazione dei contratti, secondo un modello che già da diversi anni viene proposto dall’Integrative law movement, anch’esso nato negli Stati Uniti ma ormai diffuso in tutto il mondo. I conscious contracts promossi da questo movimento sono luoghi di convergenza delle motivazioni con le quali ciascuna parte si propone di definire gi accordi contrattuali; un modo di negoziare che sposta l’attenzione dal contenuto al percorso, dal che cosa al perché. L’inserimento di clausole che prevedano il ricorso a strumenti di ADR per affrontare eventuali futuri disaccordi con il metodo collaborativo integra questo approccio con un elemento in più, con il quale le parti assumono su di sé la responsabilità di continuare sulla strada intrapresa anche nel momento in cui il rapporto dovesse guastarsi o interrompersi, con il vantaggio di non delegare a un terzo decisioni che possono compromettere la conservazione del valore di quanto costruito insieme.
Si è poi parlato del coaching come strumento per affrontare le dinamiche organizzative difficili nei contesti aziendali. Il coach è un facilitatore delle relazioni, il cui intervento in azienda può aiutare a prevenire il deflagrare di una conflittualità (fra soci, fra dirigenti e collaboratori, fra persone che lavorano a tutti i livelli organizzativi) che, nei casi peggiori, può generare mobbing reale o presunto, burn out, incaglio dei processi organizzativi, controversie di lavoro. È utile peraltro ricordare che la riforma Cartabia ha esteso la negoziazione assistita anche a tali controversie, che solo fino a pochi anni fa sembravano presentare caratteristiche incompatibili con alcun approccio consensuale.
Nelle organizzazioni l’approccio collaborativo può essere anche un aiuto per promuovere, ancora una volta, la convergenza delle motivazioni verso obiettivi comuni, facendo emergere gli interessi di ciascuno e aiutandone la composizione in un quadro coerente e compatibile con le aspettative di tutti. Non solo quindi strumento di composizione di conflitti in atto, ma anche ausilio alla pianificazione d’impresa, sia nei periodi di continuità che nelle fasi di discontinuità come quelli dei passaggi generazionali o della crisi. I piani aziendali sono infatti accordi veri e propri, che coinvolgono più parti in un processo di negoziazione il quale, se non condotto consapevolmente, può mantenere nascosti ostacoli significativi alla realizzazione di quanto programmato.
E proprio la gestione della crisi è un ulteriore ambito in cui la negoziazione collaborativa trova utile applicazione, riconosciuta anche sul piano normativo. Infatti, se gli strumenti della mediazione e della negoziazione assistita già da tempo impongono di cooperare in buona fede e con lealtà, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), introducendo lo strumento della composizione negoziata per la prima volta nel nostro ordinamento menziona esplicitamente la trasparenza, precedentemente una sorta di tabù nella negoziazione tradizionale, in cui le informazioni vengono attentamente centellinate per far cadere la goccia giusta nella crepa più vulnerabile.
In questo caso è il legislatore stesso a porre le basi per la creazione di tavoli con le caratteristiche di quelli auspicati da Stuart Webb ed evoluti negli anni per arrivare al “tavolo collaborativo” che conosciamo attualmente. Ritroviamo i principi di buona fede e trasparenza, l’intento di raggiungere un accordo che incontri al massimo livello possibile gli interessi di tutte le parti. Inoltre, il legislatore ha introdotto al tavolo la figura fondamentale dell’esperto negoziatore con un ruolo di facilitatore (figura propria della pratica collaborativa) e va da sé che il tavolo deve essere necessariamente multidisciplinare, essendo necessarie competenze diverse (come minimo legali e aziendalistiche). Salvo che per la mancanza dell’obbligo del mandato limitato (che potrebbe però derivarne come criterio di opportunità), il tavolo della crisi è quanto di più omologo si possa immaginare ad un tavolo di negoziazione collaborativa. La composizione negoziata è la prima soluzione che deve essere esplorata, nel disegno del CCII, per affrontare la crisi. In questo disegno, la crisi può rappresentare un’opportunità per costruire valore, ma se affrontata in modo avversariale è molto probabile che lo distrugga inesorabilmente per tutti: al tavolo della crisi si vince tutti insieme o si perde tutti. E il legislatore, per rinforzare l’intento di arrivare a un accordo, ha previsto che, in caso di fallimento della composizione negoziata (qualora la strada si riveli percorribile, in presenza di una prospettiva concreta di superamento della crisi che gli amministratori in primis e l’esperto negoziatore poi sono tenuti a valutare), l’imprenditore possa ricorrere allo strumento del concordato liquidatorio semplificato, istituto in cui ai creditori viene sottratto il diritto di voto sul piano liquidatorio (salva la possibilità di presentare opposizione), quasi, sembrerebbe, a voler sanzionare i creditori che non hanno contribuito in modo costruttivo alla ricerca di una soluzione al tavolo negoziale.
Ma se i professionisti che siederanno a quel tavolo saranno privi delle competenze di negoziazione necessarie sarà molto difficile per l’esperto portare a compimento la negoziazione, perché sfiducia e contrapposizione rappresentano il peggior ostacolo per la conduzione di una trattativa costruttiva. Siamo quindi noi professionisti che possiamo fare la differenza: accettare la sfida ed assumerci la responsabilità di formarci e farci trovare pronti oppure accettare di perdere per inerzia una grande opportunità.
Le competenze di negoziazione nel mondo dell’Intelligenza Artificiale
Non dimentichiamoci, fra l’altro, che il settore delle soft skills, gestione delle emozioni, costruzione di relazioni empatiche, capacità di escogitare soluzioni originali e non automatiche (competenze tutte che fanno parte del bagaglio del buon negoziatore) è anche un mondo nel quale il contributo umano continua ad essere essenziale e non appare ancora sostituibile dall’intelligenza artificiale che, per ora, in campo giuridico, opera più sull’elaborazione dell’esistente che sulla creazione del nuovo.
Nel mutamento delle professioni che inevitabilmente conseguirà all’introduzione di supporti di IA – che si riveleranno indubbiamente utili nello svolgimento di attività di tipo ripetitivo o comunque riconducibile a schemi noti – la competenza di negoziazione può rivelarsi uno strumento fondamentale per seguitare a perseguire il fine tipico di utilità sociale da sempre attribuito alle attività professionali.
A cura di Silvia Cornaglia e Daniela Stalla