VIAGGIO ALL’INTERNO DELLA NEGOZIAZIONE
in tre tappe, Firenze, Venezia, Torino e una destinazione, Milano
Conclusioni fiorentine per Milano 1° dicembre 2023
Gli stimoli delle tre tappe di questo viaggio sono stati davvero moltissimi e noi, che abbiamo il compito di riportare quelli della tappa fiorentina, ne abbiamo selezionati quattro che ci sono sembrati più utili anche ad avviare una riflessione su Quali altre mete? il tema di questa prima, e provvisoria, destinazione milanese. E ci piace qualificare questa meta solo provvisoria dato che sin dall’esordio dei lavori fiorentini la nostra presidente Dott.ssa Federica Marabini ha evocato la trasformazione in atto confermata da pochi giorni anche dall’attribuzione a lei, psicologa e psicoterapeuta, della guida dell’Associazione Italiana Professionisti Collaborativi, all’atto della sua costituzione fondata e composta solo da avvocati.
- Complementarità della giustizia consensuale piuttosto che alternatività alla giurisdizione.
Abbiamo pensato di iniziare con una delle molte suggestioni della tavola rotonda relativa alla mediazione civile e commerciale coordinata dall’Avv. Mario Dotti con la partecipazione della Dott.ssa Luciana Breggia, della Prof.ssa Paola Lucarelli e dell’Avv. Laura Ristori perché rappresenta un po’ la cornice di riferimento entro la quale sviluppare tutti i punti successivi.
Le riflessioni avvenute intorno a quel tavolo possono far guardare alla legislazione su mediazione e negoziazione assistita in modo diverso rispetto al passato, prima d’intraprendere questo viaggio. Almeno per coloro che, come noi, avevano individuato e criticato di quella legislazione la strumentalità all’obiettivo deflattivo, ossia liberare le scrivanie dei giudici, considerato evidentemente contrario allo spirito vero della negoziazione.
L’invito ad un giudice a partecipare alla tavola rotonda sulla mediazione civile era nato dal fatto che la Dott.ssa Breggia è stata protagonista di una stagione pioneristica della mediazione demandata a Firenze che, come ha osservato l’Avv. Pietro Beretta Anguissola, responsabile dell’Organismo di Conciliazione di Firenze, ha rappresentato il cavallo di Troia per lo sviluppo della mediazione, in un gioco di squadra virtuoso fra Tribunale, Organismo di Conciliazione e Università di Firenze, tutti rappresentati al convegno. Basti pensare che OCF ha al suo attivo, in dieci anni di esistenza, circa 8000 procedimenti di mediazione demandata.
L’intervento della Dott.ssa Breggia, in realtà, ha prodotto un risultato diverso e maggiore rispetto al mero racconto di un’esperienza virtuosa. Ha fatto capire come metodi consensuali e metodi aggiudicativi di risoluzione dei conflitti non debbano essere letti come sistemi separati, che possano vivere autonomamente l’uno dall’altro, perché il buon utilizzo e funzionamento dell’uno consente il buon utilizzo e funzionamento dell’altro.
La Prof.ssa Lucarelli ha usato una bellissima metafora: come l’acqua anche la giustizia è una risorsa che va risparmiata. Noi tutti, in primo luogo come cittadini, dobbiamo, dunque, contribuire al buon funzionamento della giustizia garantendo un riequilibrio tra il contenzioso gestito dai giudici e i conflitti risolti con i metodi di giustizia complementare.
Ecco che da questa prospettiva sfuma l’intento deflattivo a favore di un richiamo ad un’assunzione di responsabilità personale nella gestione, sostenibile, del bene comune Giurisdizione.
L’Avv. Dotti ha osservato che far funzionare la mediazione vuol dire lasciare risorse alla giurisdizione e quindi mediare non perché non si abbiano alternative ma perché è consentito mediare con una giustizia che funziona.
La Dott.ssa Breggia ha prospettato il rischio di una sorta di binarietà fra sistema giudiziario e sistema della giustizia complementare ed ha sostenuto come i due sistemi debbano rimanere in dialogo.
È stato illuminante per capire questo concetto il richiamo da lei effettuato alle Regole Modello Europee ELI-UNIDROIT del 2020 e ai loro tre principi, ossia cooperazione (Le parti, i loro avvocati e la corte cooperano al fine di una giusta (fair), efficiente e rapida composizione della controversia), proporzionalità̀ e composizione consensuale.
Lo scopo del principio di cooperazione può essere conseguito solo con un’equilibrata ripartizione delle risorse devolute alla trattazione dell’insieme dei processi. La trattazione della singola controversia non può essere disgiunta dalla gestione della massa dei processi per individuare un equilibrio tra la protezione degli interessi individuali di chi agisce o si difende nel singolo processo e gli interessi, considerati nel loro complesso, di coloro che sono terzi rispetto alla singola vicenda processuale, cioè̀ degli altri utenti potenziali o attuali del servizio giustizia.
La sollecitazione della Dott.ssa Breggia ci ha spinto ad approfondire il significato di tali Regole europee attraverso la lettura di un interessante articolo del Prof. Remo Caponi che fra l’altro osserva:
“Fin dall’inizio, la parola «complementari» ha ambito a sostituirsi alla parola «alternativi», con la quale i metodi consensuali di composizione delle controversie vengono ancora oggi frequentemente indicati, sulle tracce del sintagma inglese Alternative Dispute Resolution. L’idea sottesa all’impiego di «complementari» è di valorizzare la relazione di arricchimento e integrazione reciproci, piuttosto che la contrapposizione, tra strumenti negoziali e giustizia civile statale. Si segnano così punti a vantaggio sia dei primi, che della seconda. Quanto ai primi, essi acquistano decisamente un rilievo istituzionale, in primo luogo nel senso che la scelta di ricorrere agli uni o all’altra per risolvere la controversia non è relegata nella sfera privata, ma è oggetto di politiche pubbliche. Quanto alla seconda, si rifugge dalle tesi estremistiche che intenderebbero relegare la giurisdizione statale ad un ruolo residuale.
In altri termini, nel rinunciare alla decisione del giudice statale e all’applicazione di criteri decisori oggettivi e predeterminati, la composizione negoziale, assistita o meno dall’opera di un terzo, non può rinunciare ad essere giusta, bensì̀ deve perseguire questo obiettivo con gli strumenti contrattuali. Ciò̀ comporta non solo la possibilità̀ di rimuovere gli effetti di un accordo conciliativo ingiusto, nei limiti in cui l’ingiustizia possa essere sanzionata dall’accoglimento di una impugnazione negoziale, bensì̀ anche la possibilità̀ della parte di prevenire la formazione di un accordo ingiusto, allontanandosi dal tavolo della negoziazione e invocando un rimedio effettivo dinanzi al giudice statale”…..“La protezione dell’interesse delle parti a raggiungere una composizione negoziale deve essere contemperata con un’adeguata protezione degli interessi degli altri utenti del servizio giustizia. In considerazione della situazione concreta su cui incide, il bilanciamento può̀ svolgersi in più̀ direzioni e ispirare la soluzione dei problemi di dettaglio. In generale, esso gioca nel senso di incentivare il ricorso alla risoluzione negoziale per risparmiare risorse giudiziarie a vantaggio di altri utenti, ma in determinate situazioni il principio di proporzionalità̀ gioca nel senso di limitare il ricorso a metodi in cui la composizione della controversia abbia luogo attraverso un precetto negoziale. Ciò̀ accade specialmente quando: (a) la controversia implichi la soluzione di questioni giuridiche di interesse collettivo o generale, che pertanto debbano essere affidate alla concretizzazione giurisprudenziale di norme legislative inderogabili; (b) la relazione tra le parti sia notevolmente sbilanciata (socialmente, economicamente, ecc.) e quindi i rischi di ingiustizia della composizione consensuale superino la soglia della tollerabilità̀ (nel quadro di questa ipotesi si colloca anche il problema di assicurare una risoluzione efficiente alle controversie seriali, che non è data tanto dalla possibilità̀ di trarle ad oggetto di un tentativo individuale di composizione negoziale, quanto dalla introduzione di una robusta azione di classe)”.
Tutto ciò ci induce ad affermare che il senso di responsabilità dei cittadini deve coniugarsi con il senso di responsabilità e la formazione dei loro avvocati in una sinergia virtuosa nell’utilizzare lo strumento più opportuno al caso per risolvere il conflitto mediante una valutazione che non si limiti al singolo ma spazi in una dimensione più ampia e di sistema.
Per concludere su questo punto: bisogna imparare a non essere egoisti, nell’interesse proprio e degli altri. Un insegnamento questo che varrebbe la pena prevedere addirittura sin dalla formazione della scuola primaria per crescere cittadini capaci di pensare in termini di bene comune.
- Complementarità anche fra i vari metodi di risoluzione consensuale dei conflitti
Una seconda suggestione è data dal fatto che le ADR, oltre che complementari rispetto alla giurisdizione, siano complementari anche tra di loro e quindi anch’esse possano essere studiate ed utilizzate, come detto, poc’anzi, in una relazione di arricchimento e integrazione reciproca.
E vediamo come.
Anzitutto non c’è un “metodo” migliore, ma nemmeno si può ritenere che i vari metodi si possano applicare indistintamente in tutti i casi o che vadano bene per tutti. Quindi poiché, anche in questo contesto sarebbe opportuno che le risorse vengano risparmiate, sarà necessario individuare a priori il metodo migliore per ogni singolo caso, ossia quello più appropriato alle singole persone in conflitto e alla trattazione di quello specifico tipo di conflitto.
Alcuni metodi hanno anche obiettivi diversi (dalla riorganizzazione della relazione post separazione al raggiungimento di un accordo). E quindi possono essere addirittura complementari.
Ad esempio: al positivo esito di un procedimento collaborativo potrebbe aprirsi lo spazio per un lavoro di mediazione familiare nel quale una coppia di genitori potrebbe ulteriormente affinare le proprie capacità relazionali e di comunicazione.
Diversi sono infatti gli obiettivi dei due procedimenti, quello di mediazione familiare e quello di pratica collaborativa. Il primo ha come obiettivo prioritario la riorganizzazione delle relazioni familiari, il secondo il raggiungimento di un accordo per la risoluzione di un conflitto senza l’intervento di un terzo decisore.
Ed ecco, quindi, come diventano ancora una volta indispensabili le conoscenze e la formazione del professionista. Perché un professionista che desideri consigliare ad una parte in conflitto un metodo per la trattazione del problema dovrà necessariamente avere una conoscenza approfondita dei vari metodi, oltre alla capacità di effettuare uno screening preventivo per l’individuazione del metodo più adatto al caso specifico. Nella Pratica Collaborativa questo screening può essere effettuato dagli avvocati in collaborazione con il facilitatore.
Con questa nuova visione anche la complementarità tra i diversi metodi di ADR è quindi una ricchezza inestimabile e non vi è dubbio che nel futuro potrà essere anche una fonte proficua per la creazione di nuovi metodi oltre che per il miglioramento di quelli esistenti.
- La negoziazione basata sugli interessi è una scienza che necessita di una formazione specifica e l’apprendimento di tale metodo rappresenta il linguaggio comune fra i molti, diversi contenitori all’interno dei quali può avvenire la negoziazione.
Il leit motiv che ha attraversano tutte e tre le tappe del nostro viaggio è quello della necessità di una formazione specifica alla negoziazione basata sugli interessi dei professionisti che assistono le parti nella gestione dei loro conflitti – gli avvocati – e di coloro che facilitano la negoziazione, i mediatori.
Con ciò si afferma la necessità di una formazione specifica alla scienza della negoziazione come linguaggio comune per gli avvocati che assistono le parti in tutti i diversi contesti negoziali (mediazione familiare, mediazione civile e commerciale, pratica collaborativa, negoziazione assistita, negoziazione dei contratti, negoziazione nella Governance dell’impresa e nella Composizione negoziata della crisi) e per gli altri professionisti che in tali contesti svolgono il ruolo di facilitatori neutrali della negoziazione (mediatori).
Dall’Avv. Angelo Monoriti, che a Firenze ci ha intrattenuti con una suggestiva relazione introduttiva su “Negoziazione posizionale e negoziazione basata sugli interessi”, è venuta fortissima la raccomandazione ad avere un approccio scientifico e non dilettantesco alla negoziazione che non è una trattativa, non è un compromesso, non è una transazione ma è un processo di apprendimento.
Una vera e propria scienza della negoziazione che viene prima dello studio delle norme che regolamentano le singole ADR. Nella formazione universitaria e nella successiva formazione professionale l’avvocato impara a trattare i diritti, che hanno alla base la prevalenza di un soggetto sull’altro e lo sguardo rivolto al passato e a ciò che è avvenuto, e non gli interessi il cui incastro può portare ad una soluzione vantaggiosa per tutti i soggetti in conflitto, nell’ottica di una migliore gestione del futuro e della salvaguardia della relazione.
Con una metafora molto poetica la Prof.ssa Silvana Dalla Bontà, nella tappa veneziana, ha rappresentato la negoziazione basata sugli interessi come una fisarmonica che si apre alla comprensione dei bisogni dell’individuo, di una parte verso l’altra, un concetto ben diverso dal tiro alla fune fra opposte posizioni che cercano di prevalere l’una sull’altra.
Da entrambi i relatori è risultato chiaro che l’avvocato, per negoziare, non può essere munito solo degli attrezzi necessari alla migliore conduzione di un processo giudiziario e non può avere la postura del litigator.
Nell’ambito della tavola rotonda dedicata alla Pratica Collaborativa, nei nostri due interventi, è stato osservato che, dal punto di vista della formazione, solo la Pratica Collaborativa prevede per gli avvocati, come per tutti gli altri professionisti che compongono il team, una formazione specifica che comporta l’acquisizione teorica e l’esperienza pratica dei concetti della negoziazione basata sugli interessi, o di principio, secondo il modello elaborato dal Fisher ed Ury e dalla Scuola di Harvard.
È stata quindi segnalata come una pericolosa lacuna il fatto che nessuna delle norme, anche più recenti, preveda in via più generale, per gli avvocati che assistono le parti in qualsiasi tipo di attività negoziale e per i mediatori che la facilitano, una vera e propria formazione alla scienza della negoziazione, neppure i decreti n. 150 e n. 151 pubblicati in Gazzetta Ufficiale il 31.10.2023 in tema di mediazione civile e commerciale e di mediazione familiare, che pure dedicano una parte specifica alla regolamentazione della formazione e che comunque riguardano solo i mediatori e non anche gli avvocati che assistono le parti.
Nei nostri interventi abbiamo anche segnalato il rischio sotteso ad una generica interpretazione dell’aggettivo “collaborativo” riferito all’avvocato che può essere travisato in due modi opposti: con un’accezione non tecnica e non legata ad uno specifico metodo, una sorta di attitudine generica, o in un’accezione negativa, di negoziatore con un atteggiamento remissivo e pregiudizievole per gli interessi del cliente. Abbiamo spiegato come in concreto agisce, invece, un avvocato formato alla Pratica Collaborativa, nell’interesse della parte assistita in modo non antagonista nei confronti dell’altra parte che, non a caso, non viene definita “controparte”.
A nostro parere la generalizzata formazione specifica degli avvocati consentirebbe di superare quella decisa separatezza della stanza del mediatore familiare dallo studio dell’avvocato che è emersa dalla rappresentazione del metodo nella tavola rotonda dedicata alla mediazione familiare coordinata dall’Avv. Adriana Capozzoli, con la rappresentazione di un “dentro”, che vede impegnata solo la coppia con il mediatore, ed un “fuori” al quale viene lasciata la consulenza dei partner/genitori con i rispettivi difensori.
La possibilità della presenza nella stanza di mediazione degli avvocati è vissuta con parecchia preoccupazione dal mediatore familiare tanto da far leggere dalla Dott.ssa Milly Cometti come una criticità la disposizione del decreto 27 ottobre 2023, n. 151 Regolamento sulla disciplina professionale del mediatore Familiare laddove al suo Art. 6. dedicato alle Regole deontologiche, prevede al comma 10 lettera c) che, in pendenza di una procedura giudiziaria, il mediatore familiare debba informare la parte costituita in giudizio che ha facoltà̀ di farsi assistere dal proprio avvocato al primo incontro di mediazione, agli incontri successivi che hanno ad oggetto aspetti economici e patrimoniali e per l’eventuale sottoscrizione dell’accordo.
È evidente che un avvocato posizionale in quella stanza sarebbe un intralcio ma, al contrario, un avvocato negoziatore rappresenterebbe un grande supporto.
Un avvocato formato alla negoziazione farebbe superare anche la necessità di introdurre un co-mediatore con formazione giuridica a fianco del mediatore con formazione psicologica per affrontare gli aspetti economici e materiali del modello di mediazione globale interdisciplinare di cui ha parlato il Dott. Luca Pappalardo. Tale co-mediatore non potrà mai peraltro supplire all’assenza dei difensori dato il divieto per il mediatore di dare qualsiasi forma di consulenza ai mediandi.
Un avvocato consapevole del diverso ruolo di risolutore di conflitti rispetto a quello di litigator e formato per esercitarlo sarebbe il migliore alleato nella preparazione dell’assistito, in qualunque delle differenti ADR quest’ultimo si trovasse a lavorare, alleggerendo e supportando la fatica del mediatore familiare che così chiara è emersa dall’intervento della Dott.ssa Chiara Vendramini che ci ha raccontato le sessioni individuali di preparazione alla mediazione familiare vera e propria. La stessa fatica e lo stesso impegno emersi dall’intervento del Dott. Giancarlo Francini che ha segnalato come vi siano situazioni che hanno bisogno di una pre-mediazione perché le persone non ce la fanno, altrimenti, ad entrare nell’ottica della vera e propria mediazione e di una rete intorno ai partner/genitori fatta dai professionisti, mediatore e avvocati di fiducia, questi ultimi particolarmente importanti, insieme ai giudici, anche per la fase di invio, assai delicata e cruciale per il successo del percorso.
La Dott.ssa Isabella Buzzi, che ha rappresentato i tanti modelli di mediazione familiare attraverso la storia del metodo, ha anche ricordato che il primo modello fu proprio quello negoziale. A prescindere dal modello il mediatore familiare facilita la negoziazione dei mediandi e non può, quindi, non essere un esperto di negoziazione basata sugli interessi.
L’Avv. Laura Ristori, esperta mediatrice civile, ha dimostrato con un esempio di vita vissuta come anche un abile professionista possa porre in modo sbagliato una domanda aperta, salvo essere capace di recuperare se formazione ed esperienza vengano in aiuto e rendano consapevoli dell’effetto negativo dando gli strumenti per rimediare.
Desideriamo evidenziare che ciò che per molti di noi era chiaro da tempo, e che è emerso inequivocabilmente da questo “Viaggio”, è ormai peraltro affermato senza possibilità di equivoci dalla stessa Corte di Cassazione.
La sentenza n. 8473/2019 della Suprema Corte, infatti, ha indicato esplicitamente la differente formazione necessaria fra un “…avvocato esperto in tecniche processuali che “rappresenta” la parte nel processo…” e un “avvocato esperto in tecniche negoziali che “assiste” la parte nella procedura di mediazione …” precisando che quest’ultimo deve considerarsi come “figura professionale nuova, con un ruolo in parte diverso e alla quale si richiede l’acquisizione di ulteriori competenze, anche di tipo relazionale e umano, inclusa la capacità di comprendere gli interessi delle parti al di là delle pretese giuridiche avanzate”.
Pur riferendosi al contesto della mediazione civile e commerciale, la Suprema Corte ha rimarcato il principio secondo cui la formazione tradizionale nelle materie giuridiche non è di per sé sufficiente per “assistere” le parti nei sistemi negoziali di risoluzione dei conflitti e, quindi, in tutti i sistemi che mirano non al ripristino di un “ordine imposto”, ma al raggiungimento di un “ordine negoziato” nei termini indicati dall’Avv. Monoriti.
Nonostante l’esplicito “richiamo” fatto già nel 2019 dalla Suprema Corte alla necessità di specifica formazione di chi “assiste” le parti in fasi negoziali nessun provvedimento normativo fra quelli anche recenti che hanno disciplinato gli istituti della mediazione civile, della mediazione familiare, della negoziazione assistita ha previsto l’avvio a livello universitario e a livello di formazione professionale di appositi corsi di formazione per coloro che “assistono” le parti basati sulla scienza della negoziazione.
È evidente come tale grave mancanza rischi di annullare l’efficacia di qualsiasi riforma. Come abbiamo già notato nei nostri interventi non è possibile consolidare la forza innovativa del mediatore lasciando intatto tutto ciò̀ che gli sta intorno e soprattutto i professionisti che sono il punto di riferimento per le parti, ossia i loro difensori.
Con una lettura ideale ed avanzata, come quella suggerita dall’Avv. Anna Napoli, del codice deontologico forense, potremmo forse interpretare l’art.14 Dovere di competenza (L’avvocato, al fine di assicurare la qualità̀ delle prestazioni professionali, non deve accettare incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata competenza) e l’art. 15 Dovere di aggiornamento professionale e di formazione continua (L’avvocato deve curare costantemente la preparazione professionale, conservando e accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori di specializzazione e a quelli di attività̀ prevalente) come già comprensivi dell’obbligo di formazione alla scienza della negoziazione ma tale interpretazione non è certamente nelle corde della gran parte dell’avvocatura. In gran parte di questa, infatti, vi è la convinzione di essere “mediatori di diritto”, e quindi che nel tesserino di avvocato sia compreso anche il titolo di negoziatore.
Il Prof. Francesco Paolo Luiso ha rappresentato da par suo il concetto con la metafora di un campo da gioco raccontando come esordiva nei corsi ai quali era invitato a parlare per primo come relatore sin dagli anni della conciliazione, e poi della prima introduzione della mediazione. In quelle occasioni l’autorevole professore di procedura civile avvertiva che ciò che avrebbe detto non era la cosa più importante perché molta maggiore importanza l’avrebbero avuta i contenuti dei relatori successivi. Con la propria competenza, infatti, un professore di procedura civile avrebbe potuto solo dare le regole del gioco, ovvero delineare i confini del campo di gioco, ma non insegnare come vincere la partita di raggiungere un accordo attraverso una negoziazione efficace.
A conclusione di una giornata intensa e piena di stimoli la partecipazione del giovane collega Avv. Emanuele De Napoli come rappresentante delle nuove generazioni di avvocati, ci ha proiettati nel futuro. I giovani professionisti formati per partecipare alle competizioni di negoziazione e di mediazione, ci raccontano di esperienze virtuose che dimostrano la specificità di una formazione alla negoziazione e la possibilità anche di valutazione del grado di apprendimento e di efficacia delle tecniche negoziali usate, al pari della valutazione della preparazione del diritto processuale civile.
In conclusione, ci pare di poter riportare come idea condivisa l’urgenza di rimediare alla lacuna di una formazione specifica alla scienza della negoziazione e la necessità di costruire un linguaggio comune, sia nelle università che nei successivi percorsi formativi professionali, attraverso la predisposizione di programmi specifici che prevedano l’apprendimento della negoziazione basata sugli interessi prima e accanto allo studio delle norme che regolamentano i diversi istituti che quel metodo applicano. In particolare, la responsabilità dei Consigli degli Ordini degli Avvocati su ruolo, funzione e formazione degli avvocati per accogliere le nuove sfide è stato evidenziato anche dall’Avv. Cecilia Turco, Presidente dell’Unione Distrettuale degli Ordini Forensi della Toscana.
Università, Ordini e Associazioni dovranno fare rete per raccogliere questa importante sfida e realizzare un progetto condiviso che solo la sinergia di tutti potrà consentire.
- Complessità/interdisciplinarità
L’ultima suggestione è legata ad una parola che è stata evocata nella gran parte degli interventi fiorentini: COMPLESSITÀ.
Come ricordato dalla Prof. Paola Lucarelli “scomporre” un problema complesso (in modo che ogni specialista lo studi separatamente secondo la propria disciplina) non giova alla sua comprensione ed alla sua soluzione. Questo approccio riduzionista, infatti, serve per risolvere un problema “complicato”, come potrebbe essere ad esempio il mancato funzionamento di una apparecchiatura, ma, purtroppo, quando si deve gestire un problema complesso questo atteggiamento porta al fallimento. Un’osservazione simile è stata fatta anche da Philip Warren Anderson, premio Nobel per la fisica nel 1977, nel famoso articolo “more is different”. Un articolo che è una delle pietre miliari della scienza della complessità.
Il conflitto, come, ad esempio, la pandemia e come la maggior parte dei problemi del nostro tempo, è senza dubbio un problema “complesso” e quindi sia lo studio della società che la ricerca scientifica ci hanno da tempo insegnato che per poter risolvere i problemi complessi è necessario applicare un approccio interdisciplinare, che permetta un confronto ed una comunicazione costanti e continue tra le diverse discipline.
L’Avv. David Cerri ci ha ricordato, come nel corso della tappa fiorentina, dai vari interventi, sia emerso che il metodo interdisciplinare sia non solo utile ma necessario nelle ADR dovendo l’avvocato occuparsi spesso dei vari piani del conflitto, ad esempio rapporti personali e questioni economiche. L’integrazione di altre professionalità parrebbe quasi una soluzione naturale.
Ed infatti molte ADR fanno già da tempo un uso “multidisciplinare” delle professionalità, ricorrendo, ad esempio, all’intervento di professionisti, sia neutrali che di parte, che mettono a disposizione dei clienti o degli avvocati un contributo tecnico che è specifico delle loro singole professionalità. Ora anche la riforma della mediazione familiare introduce, in alcune situazioni, la presenza dell’avvocato e quindi di fatto crea un modello multidisciplinare. Dobbiamo però tenere a mente, come ci ha ricordato la Dott.ssa Isabella Buzzi, anche l’importanza della formazione di tutte le parti al metodo, avvocati compresi, e non solo avvocati ma anche commercialisti ecc., affinché sia possibile la collaborazione tra professionisti altamente specializzati.
Questo a nostro avviso trasformerebbe la multidisciplinarietà in interdisciplinarità.
Nella sua espressione più innovativa il metodo utilizzato nella Pratica Collaborativa permette ad un team di lavorare sui diversi aspetti del conflitto proprio in maniera “interdisciplinare”, introducendo professionalità che partecipano direttamente allo scambio d’informazioni e vanno ad affiancare, e talvolta a sostituire, quelle legali permettendo, attraverso la conoscenza delle caratteristiche di quel particolare conflitto, l’applicazione delle migliori tecniche per la sua risoluzione. Talvolta è possibile anche l’utilizzo di un approccio transdisciplinare (si pensi ad esempio a quei casi in cui fungono da facilitatori a rotazione gli avvocati o uno dei professionisti neutrali e non necessariamente lo psicologo) che va a rafforzare la posizione centrale dei clienti con la diffusione dei ruoli dei singoli professionisti, il che evidentemente implica non solo una comune formazione ai principi della pratica collaborativa, ma anche una formazione incrociata di competenze e di pratica congiunta, oltre che una maggiore introspezione ed auto-consapevolezza per risolvere problemi personali che potrebbero impattare negativamente sul funzionamento del team (questione quest’ultima trattata anche dall’Avv. Laura Ristori nel suo intervento sulla negoziazione nella mediazione civile-commerciale).
Ed inoltre il lavoro interdisciplinare nella Pratica Collaborativa permette anche a tutte le persone presenti di essere sostenute nell’ambito della negoziazione.
Come ci ha spiegato la Dott.ssa Monica Tomagnini “il conflitto non è un contenuto, ma una modalità di relazionarsi e di pensare, riguarda il modo in cui noi ci rappresentiamo le situazioni”. Quindi nell’ambito del procedimento collaborativo si presenta talvolta la necessità non solo di facilitare la comunicazione di tutti i componenti del gruppo presenti al tavolo, ma anche di aiutare i professionisti presenti quando i loro schemi comunicativi e relazionali s’irrigidiscono in momenti di particolare difficoltà della negoziazione. Un team interdisciplinare grazie alla “Visione d’Insieme delle diverse professionalità” è anche in grado di organizzare il lavoro in un modo più efficace facilitando la condivisione dei dati e ottimizzando la loro comprensione. Come ci ha ricordato il Rag. Commercialista Fabrizio Baccellini: il lavoro imparziale dei professionisti neutrali facilita la negoziazione alla ricerca dell’accordo, tenendo in considerazione i bisogni e gli interessi di tutti, e le parti vengono anche assistite nella raccolta e comprensione delle informazioni economiche. La lettura di questi dati da parte del professionista neutrale assume per le parti una valenza completamente diversa e più oggettiva rispetto a quella effettuata dagli avvocati.
Come ha notato l’Avv. Carla Marcucci in un mondo complesso e fluido, quale è quello nel quale viviamo, dobbiamo porci un obiettivo più ambizioso del solo raggiungimento di un accordo duraturo: rendere le parti capaci in futuro di negoziare autonomamente.
Nessun accordo, per quanto buono e tagliato su misura delle parti in conflitto, potrà mai azzerare l’instabilità della vita reale e la necessità di progressivi adattamenti alle nuove esigenze. Capacità di adattamento e flessibilità diventano dunque indispensabili. L’aspirazione, quindi, è quella di rendere le persone competenti a trovare sempre nuovi accordi, negoziando in via autonoma per far fronte ad esigenze nuove, nell’ambito di rapporti familiari, aziendali o d’altra natura, comunque destinati a durare nel tempo.
Nell’ambito delle ADR, in particolare nel contesto della Pratica Collaborativa, è prevista la funzione educativa di ciascun difensore sul proprio cliente e anche i neutrali del team interdisciplinare promuovono l’autodeterminazione delle parti (che è alla base anche della mediazione familiare, come ha spiegato la Dott.ssa Buzzi) e lavorano anche alla trasformazione della loro comunicazione e relazione, come ci hanno rispettivamente spiegato il Rag. Commercialista Baccellini e la Dott.ssa Tomagnini. Quindi le parti in conflitto fanno esperienza in prima persona ed apprendono a negoziare (così come nella mediazione familiare su modello negoziale imparano a negoziare utilizzando tecniche di brainstorming e di problem solving).
Vivere in prima persona questa esperienza offre alle parti un’occasione per imparare ad essere autonomi nel gestire e risolvere in futuro le differenze.
Obiettivo, questo, oggi più che mai indispensabile per cercare di rendere il mondo, oltre che la propria famiglia o la propria azienda, un luogo migliore.
A cura di Carla Marcucci ed Elisabetta Valentini