l 14 febbraio 1990 Stu Webb, avvocato matrimonialista in Minnesota, scriveva al giudice Sandy Keith “I have unilaterally declared that I will not go to court in an adversarial matter” preannunciando che non avrebbe più patrocinato cause contenziose per l’insoddisfazione dei loro risultati e nella convinzione che le capacità creative degli avvocati sarebbero state enormemente stimolate se gli stessi non avessero avuto l’alternativa di introdurre il giudizio contenzioso.
Stu Webb si domandava “Why not create an intentional settlement climate that encourages cooperation and creative alternatives?” e rifletteva “You and I have both experienced, I’m sure, those occasional times, occurring usually by accident, when in the course of attempting to negotiate a family law settlement, we find ourselves in a conference with the opposing counsel, and perhaps the respective clients, where the dynamics were such that in a climate of positive energy, creative alternatives were presented. In that context, everyone contributed to a final settlement that satisfied all concerned – and everyone left the conference feeling high energy, good feelings and satisfaction. More than likely, the possibility for change in the way the parties related to each other in he future may have greatly increased… Why not create this settlement climate deliberately?”
Così nasceva l’idea del Diritto Collaborativo che, nella sua successiva declinazione multidisciplinare basata sul team (avvocati, esperto di relazioni familiari, esperto finanziario, specialista del bambino), attraverso la diffusione ed elaborazione avvenute in California, si chiamerà più propriamente Pratica Collaborativa.
Che cos’è la Pratica Collaborativa in ambito familiare?
La Pratica Collaborativa é una procedura nell’ambito della quale le parti – coniugi, partner, genitori ecc. – assistite necessariamente ciascuna da un proprio avvocato ed eventualmente, a seconda delle necessità e delle specificità del caso, entrambe da un esperto di relazioni familiari e/o da un commercialista e/o da uno specialista del bambino – s’impegnano ad individuare soluzioni soddisfacenti per entrambe e per i figli vincolandosi al rispetto di alcune basilari regole mediante la sottoscrizione di un Accordo di Partecipazione che prevede necessariamente:
il conferimento dell’incarico a tutti i professionisti è limitato all’assistenza delle parti, secondo le diverse competenze, per il raggiungimento dell’accordo sulle questioni oggetto della procedura Collaborativa con l’espresso divieto per tutti loro – avvocati e altri professionisti del team collaborativo – di assistere quelle parti in successivi giudizi contenziosi che le stesse intentassero eventualmente fra loro sullo stesso oggetto della procedura Collaborativa (Disqualification Agreement);
completezza, trasparenza e riservatezza delle informazioni rilevanti che le parti si impegnano a scambiare reciprocamente nell’ambito della procedura Collaborativa;
attiva partecipazione delle parti a tutta la procedura Collaborativa secondo modalità improntate al rispetto, all’ascolto e alla comprensione reciproca.
La Pratica Collaborativa è una procedura strutturata che si basa su alcuni principi fondamentali:
- la separazione e il divorzio (come altre questioni in ambito familiare) non rappresentano per le persone che l’affrontano un problema solo di carattere legale ma anche, e spesso soprattutto, di carattere emotivo/relazionale/psicologico ed economico. È un passaggio esistenziale complesso che richiede un approccio altrettanto complesso ed articolato, non settoriale, alla Persona per individuare e soddisfare tutti i suoi interessi (materiali, emotivi e procedurali). L’avvocato può rispondere ad una parte di tale problema del cliente e solo il lavoro in team con altri esperti garantisce la comprensione e la soluzione del problema nel suo complesso;
- il diritto dunque non è l’unico ed il più importante parametro sul quale costruire la soluzione, che deve essere individuata tenendo in considerazione anche tutti gli altri interessi di entrambe le parti, anche se il diritto rappresenta il perimetro entro il quale tale soluzione dovrà necessariamente collocarsi e anche se il diritto funziona come limite per aspettative irrealistiche, quando una parte cerca di ottenere un risultato al di fuori dell’ambito legale che va contro gli interessi dell’altra parte. In questa accezione, ove il diritto non è sottovalutato né sopravalutato, vi è consapevolezza che esso può fornire solo soluzioni standard, variabili da ordinamento a ordinamento e nel tempo, che la sua interpretazione da parte dell’autorità giudiziaria risulta spesso imprevedibile e non uniforme e che il tempo e le risorse del sistema giudiziario per la sua corretta applicazione sono limitate;
- se il diritto non è l’unico criterio di riferimento e se sono rilevanti anche gli interessi delle parti, individuando i quali si può raggiungere un accordo che le soddisfi, le parti stesse sono competenti e capaci per la creazione di soluzioni specifiche e soddisfacenti e le vere protagoniste dell’intera procedura (principio di autodeterminazione e di responsabilità versus delega al giudice e agli avvocati);
- se i clienti sono competenti e capaci in relazione alla individuazione della soluzione e se deve essere valorizzata la loro autodeterminazione i professionisti, compresi gli avvocati, hanno un ruolo completamente diverso da quello assunto nel contenzioso giudiziario ed anche nella trattativa tradizionale;
- se il diritto non è l’unico parametro di valutazione è necessario individuare gli interessi sottesi alle posizioni delle parti perché sono i primi a motivare, come silenziosi motori, le seconde. Solitamente esistono molti modi diversi per soddisfare un interesse e la risposta non è unica, come invece spesso è unica e opposta la risposta rispetto a due posizioni contrapposte. A posizioni contrapposte possono corrispondere interessi condivisi. Interessi condivisi e interessi differenti ma complementari possono costituire i blocchi sui quali costruire un accordo. WHY versus WHAT (E’ più utile chiedersi “Perché il mio partner sta assumendo quella posizione?” piuttosto che focalizzarsi su quello che lo stesso chiede);
- la negoziazione collaborativa è di natura integrativa e non distributiva nel senso che prima si espande ciò che poi si distribuisce senza limitarsi a dividere una torta secondo la logica sottesa alla trattativa tradizionale, di negoziare sulla differenza delle posizioni contrapposte delle parti. La soluzione più giusta non sarà quella che scontenta un po’ tutte le parti ma, al contrario, quella che va incontro agli interessi di tutte le parti soddisfacendole entrambe. La soluzione giudiziale e l’accordo raggiunto nella trattativa tradizionale spesso rappresentano un compromesso, dividendo a metà la differenza fra le due posizioni e offrendo un risultato che si pone nel mezzo di tale differenza. Nella Pratica Collaborativa il risultato è spesso diverso da quello immaginato inizialmente da ciascuna delle parti;
- è necessario sensibilizzare i clienti ad avere una visione ampia e a lungo termine di quanto gli stessi desiderino per se stessi e per i figli (“the big picture”) nella consapevolezza che le decisioni prese al momento della separazione e del divorzio modelleranno la vita futura di tutti loro. Visione prospettica rivolta al futuro piuttosto che al passato, anche se dal passato possono essere tratte preziose informazioni circa le motivazioni sottese alle attuali richieste e alle modalità della coppia di affrontare e gestire i conflitti.
Un’immagine per rappresentare la Pratica Collaborativa
Una coppia che affronta il mare aperto in barca sapendo che durante il suo viaggio affronterà la tempesta ma che può contare su un equipaggio che rema nella stessa direzione e che ha a bordo tutto quanto è necessario (tutte le diverse competenze) per affrontare quel rischio e superare i momenti peggiori. La coppia è alla guida della barca e indica la meta mentre i professionisti posseggono la mappa per accompagnarla durante il percorso, segnalando i rischi durante il viaggio, i percorsi più brevi, quelli più sicuri.
IL RUOLO DELL’AVVOCATO NELLA PRATICA COLLABORATIVA
Prima di affrontare i tratti specifici dell’avvocato Collaborativo e del ruolo che egli svolge nel team Collaborativo è necessario dar conto di un cambiamento più generale avviato negli ultimi anni ed ancora in atto nella percezione del ruolo e dell’identità dell’avvocato derivante dall’emergere di una diversa cultura rispetto alla modalità di risoluzione dei conflitti, ossia quella basata sulla costruzione del consenso piuttosto che sulla decisione imposta dall’autorità giudiziaria all’esito di un contenzioso.
Nel suo libro “The New Lawyer. How settlement is transforming the practice of law”5 Julie Macfarlane, professore alla Facoltà di Legge dell’Università di Windsor, già nel 2008 avvertiva “The most successful lawyers of the next century will be practical problem solvers, creative and strategic thinkers, excellent communicators, who are persuasive and skillful negotiators, thoroughly prepared advocates for good settlements, who are able and willing to work in a new type of professional partnership with their clients, and aware of the need to constantly update their knowledge of conflict management processes and techniques as well as substantive law. This is the lawyer as conflict resolution advocate, and whom this book calls the new lawyer”
Per la Macfarlane caratteristica del nuovo avvocato sarà anche quella di non esaurirsi in un modello uniforme poiché la diversità, piuttosto che la conformità, nella modalità di difesa è la risposta migliore alle diverse esigenze dei clienti. Come non vi è un unico modello di avvocato adatto indifferentemente per ogni cliente, così non vi è un’unica procedura di risoluzione dei conflitti ma differenzi opzioni fra le quali il cliente potrà scegliere la più appropriata a se stesso e al suo caso (Mediazione Familiare, Pratica Collaborativa, Trattativa tradizionale, Contenzioso giudiziario).
Per individuare i tratti distintivi di questo nuovo avvocato mi soffermerò sulle caratteristiche e sulle abilità dell’avvocato tradizionale, che fanno parte del bagaglio culturale e della “cassetta degli attrezzi” di tutti noi, acquisiti sin dagli anni di formazione teorica universitaria e successivamente praticati, coltivati e raffinati in anni di esperienza sul campo.
Come osserva Macfarlane, vi sono almeno tre “core beliefs” che tratteggiano l’identità della difesa intesa in senso tradizionale: 1. credere nella supremazia e nella superiorità e, forse sarebbe meglio dire, nella esclusività/esaustività, della soluzione basata sui diritti (“the default to rights”) 2. credere nell’autorevolezza del processo legale nel senso di ritenerlo sinonimo di giustizia (“justice is process”) 3. credere nel modello della delega all’avvocato come persona incaricata di risolvere la questione (“lawyers in charge”).
Per molti versi tutti e tre questi pilastri sui quali si basa la difesa intesa in senso tradizionale non rispondono più in modo soddisfacente alla richiesta della società attuale, quanto meno non rappresentano più l’unica e la miglior risposta possibile, indifferentemente per tutti i casi.
C’è stata un’epoca in cui il riconoscimento dei diritti, soprattutto a favore della fasce più deboli o marginali della società, ha rappresentato una conquista fondamentale, si pensi, solo per fare un esempio fra i molti possibili, al riconoscimento dei diritti a favore delle donne e dei bambini e alla riforme che nell’ambito del diritto di famiglia sono state il motore per un effettivo cambiamento del modo stesso di vivere nell’ambito della società.
Tuttavia, nella società contemporanea, in molti casi l’enfasi esclusiva sui diritti può ingessare lo scontro fra le persone, in un interminabile e poco produttivo contrapporsi di argomenti giuridici all’esito del quale di certo vi è solo l’escalation del conflitto a fronte dell’incertezza del risultato, spesso comunque tardivo e non soddisfacente.
Anche il (pre)concetto, tipico della mentalità della cultura giuridica tradizionale, che la giustizia scaturisca solo da un procedimento formale giudiziario non presta sufficiente attenzione ai risultati sostanziali che spesso si raggiungono applicando le regole procedurali del “giusto processo” che talora lasciano spazio a tattiche e strategie che garantiscono l’emergere di una verità processuale molto diversa da quella sostanziale.
Infine, la difesa centrata sull’avvocato piuttosto che sul cliente, nell’accezione più tradizionale in cui il professionista è molto direttivo e il cliente assai passivo, può trasformare le questioni in discussione in qualcosa che alla fine è poco riconoscibile anche da parte del cliente stesso e portare ad un risultato a questi estraneo e non sempre positivo.
Da molti è sempre più avvertita, dunque, l’esigenza di un forte cambiamento di mentalità e di attitudine da parte dell’avvocato per raccogliere le sfide di una società completamente diversa rispetto a quella di soli pochi anni fa.
Un po’ in tutti i settori del diritto i clienti si chiedono sempre di più che tipo di soluzione possano attendersi da un giudizio contenzioso, che investimento di denaro, di tempo e di energie questo comporterà.
In certi settori, poi, come ad esempio quelli che hanno a che fare con rapporti familiari o societari, che è importante mantenere nel tempo, per assolvere al meglio alle responsabilità genitoriali o per interessi economici, rileva anche il fatto che la vittoria in giudizio dell’uno e la sconfitta dell’altro non rappresentano il risultato che risolve la questione in modo sostanziale, decretando invece la sconfitta di entrambi i contendenti.
Come ha sottolineato Macfarlane, dall’ “avvocato combattente” , “pitbull”, si è passati, si sta passando, ad un’altra figura di avvocato, come “risolutore di conflitti”. Questi continua ad avere le abilità e le conoscenze dell’avvocato tradizionale alla quali ne aggiunge altre e soprattutto fa di tutta la sua attrezzatura, vecchia e nuova, un uso completamente diverso.
La conoscenza delle norme sostanziali e processuali, l’abile argomentare giuridico, la capacità di redigere atti difensivi convincenti non esauriscono più la necessaria attrezzatura dell’avvocato che, per rispondere alla nuova chiamata a risolutore del conflitto, dovrà aggiungere capacità diverse, complesse e non improvvisabili al di fuori di specifici percorsi formativi.
In questo contesto di cambiamento e di rimessa in discussione del ruolo dell’avvocato e della difesa s’inserisce la Pratica Collaborativa nell’ambito della quale la difesa è intesa in modo completamente diverso rispetto al modello tradizionale.
Nel team Collaborativo l’avvocato promuove nei clienti la capacità di raggiungere i loro accordi aiutandoli a capire i propri bisogni, ad essere capaci di ascoltare e lavorare con i bisogni degli altri, creando una procedura sicura, apportando saggezza ed esperienza, assicurando che i clienti siano informati sul diritto e sulle conseguenze delle loro scelte, consentendo loro di decidere che ruolo far giocare al diritto.
All’inizio della Procedura sarà sempre l’avvocato a dover aiutare il cliente a scegliere fra le varie opzioni procedurali (Mediazione Familiare, Pratica Collaborativa, Trattativa Tradizionale, Contenzioso), mettendolo nella condizione di esprimere un consenso effettivamente informato a una di queste non sulla base delle preferenze del professionista ma sulle necessità del cliente e del caso (ad esempio, la capacità del cliente a partecipare , la capacità di comunicare, il livello di fiducia fra le parti), avvertendolo dei prevedibili vantaggi e dei possibili svantaggi di ciascuna delle procedure.
Durante la procedura Collaborativa l’avvocato, pur avendo un approccio completamente diverso verso l’altra parte e l’altro difensore che considererà parte della squadra che lavora alla costruzione dell’accordo, sarà lì per il suo cliente e per assicurare che i suoi interessi vengano realizzati.
L’avvocato Collaborativo non è neutrale, anche se non si pone in modo antagonistico rispetto all’altra parte.
E’ sulla rottura dell’equivalenza difesa=antagonismo, senza cadere nella posizione di neutralità, che si gioca in buona sostanza la partita del nuovo avvocato.
Un professionista collaborativo rifiuta il concetto che sostenere l’interesse del cliente significhi contrapporsi all’altra parte ma anzi ritiene che, proprio a tale scopo, è necessario conoscere gli interessi dell’altra parte, così da poter compiutamente esplorare tutte le opzioni che possono funzionare per quella coppia.
Essere un avvocato Collaborativo significa anche modulare l’intensità ed il grado della difesa sulle necessità del cliente e delle varie fasi dell’assistenza, lungo una linea continua che passa da una minore intensità (“Facilitative Advocacy”) ad una maggiore intensità (“Partisan Advocacy”), senza mai venir meno al proprio dovere di difesa, ad un polo, e senza mai adottare una modalità difensiva antagonista, al polo opposto di tale gamma di modalità diverse.7
In che cosa la Pratica Collaborativa è diversa dalla Trattativa tradizionale?
Molti avvocati che da anni affrontano le controversie familiari con spirito conciliativo e in un’ottica multidisciplinare, quando sentono parlare della Pratica Collaborativa, esclamano “Io la pratico da sempre” non rendendosi conto che si tratta di tutt’altro dalla trattativa tradizionale stragiudiziale, pur quando quest’ultima sia condotta in modo eccellente.
In effetti, senza essere passati almeno attraverso l’esperienza pratica di un corso di formazione base alla Pratica Collaborativa, può sfuggire la fondamentale differenza che vi è fra la gestione di una separazione mediante la trattativa condotta da due abili ed esperti avvocati secondo l’approccio tradizionale e la gestione della stessa separazione nell’ambito della procedura Collaborativa.
In entrambi i casi il risultato, se positivo, sarà la redazione di un ricorso per separazione consensuale ma il percorso per arrivarvi sarà stato completamente diverso.
In primo luogo la trattativa tradizionale è lasciata alla discrezionalità, alla personalità e allo stile di ciascun professionista, non trattandosi di procedura strutturata che deve seguire precise fasi condivise, per le quali siano previste regole, obblighi, sanzioni.
Osservati i generici principi deontologici validi in via del tutto generale ogni avvocato si regola, infatti, come crede meglio, dedicando alla trattativa stragiudiziale preliminare al deposito di un ricorso in via contenziosa, poco/tanto tempo, poco/molto impegno, coinvolgendo niente/poco/tanto il cliente, anche considerando il tipo di collega che avrà di fronte.
In secondo luogo, nella gestione tradizionale dell’attività stragiudiziale i colleghi che si ritroveranno ad assistere le due parti non avranno necessariamente alcun background formativo comune né una condivisione di approccio al diritto di famiglia, ragione per la quale ciascuno di loro può aspettarsi, a seconda del contraddittore, ogni possibile iniziativa, in sintonia o in contrapposizione con il proprio stile difensivo.
In terzo luogo, i veri protagonisti di una trattativa tradizionale stragiudiziale sono sempre gli avvocati, qualsiasi sia il livello di coinvolgimento dei loro assistiti, anche questo deciso nella maggior parte dei casi dai professionisti.
Tale circostanza si lega bene ed è conseguenza della quarta caratteristica della trattativa tradizionale, ossia quella di basarsi sul diritto e di avere come parametro di riferimento, per avanzare, accettare o rifiutare proposte, quella che sarebbe la soluzione più probabile data dal giudice nell’eventuale giudizio contenzioso.
Un professore di diritto all’Università del Wisconsin, Marc Galanter, ha coniato il termine “litigotiation” (litigation + negotiation) per descrivere la trattativa nell’ambito del modello contenzioso, termine dal quale appare evidente quanto la trattativa tradizionale sia condizionata dalla soluzione giudiziale.
Del diritto e della sua interpretazione giurisprudenziale gli esperti sono gli avvocati che, di fatti, nella trattativa tradizionale avranno un ascolto generalmente abbastanza selettivo alle informazioni che i clienti tendono a dare in modo spesso molto maggiore rispetto alle necessità del caso da un punto di vista strettamente giuridico.
Le parti dunque parlano attraverso la voce dei rispettivi avvocati che, quando la soluzione non è così chiaramente a favore dell’una o dell’altra parte, si cimenteranno nell’individuazione di una soluzione mediana che si colloca spesso a metà della differenza delle contrapposte posizioni in modo che non vi sia una parte più penalizzata dell’altra e che entrambe abbiano rinunciato a qualcosa della loro domanda iniziale.
In qualsiasi momento, e soprattutto in quelli di maggior impasse, ciascun avvocato può, infine, utilizzare un’arma spesso dirimente che è quella della minaccia di depositare il ricorso in via contenziosa in modo che sarà il giudice a risolvere il caso.
Senza nulla voler togliere al valore delle trattative stragiudiziali che ciascuno di noi ogni giorno pazientemente avvia, coltiva e conclude, spesso raggiungendo ottimi e stabili accordi, la procedura Collaborativa è modalità completamente diversa.
Innanzitutto, come già evidenziato, si tratta di una procedura strutturata non lasciata all’improvvisazione degli avvocati che, insieme alle parti e agli altri professionisti del team, dovranno attenersi a precisi obblighi e all’osservanza di regole nel passaggio, regolato, da una fase all’altra della procedura (sottoscrizione dell’Accordo di Partecipazione e individuazione del team, raccolta e scambio di tutte le informazioni rilevanti nel rispetto dei principi di trasparenza e di riservatezza, individuazione degli interessi sottostanti alle posizioni delle parti, creazione delle opinioni con il metodo del brainstorming, valutazione delle varie opzioni, raggiungimento dell’accordo).
Contrariamente a quanto avviene nella trattativa tradizionale nell’ambito di una procedura Collaborativa vi è la garanzia che tutti i professionisti del team siano formati a tale pratica e ne condividano lo spirito, lo scopo e i metodi, e che siano tutti vincolati all’osservanza dei medesimi obblighi, compreso quello di pretendere dal proprio cliente rispetto degli impegni sottoscritti con l’Accordo di Partecipazione.
Nella Pratica Collaborativa si osserva una coreografia condivisa che funziona da contenitore per le parti e per i professionisti costituendo quello spazio sicuro che consente agli uni e agli altri di fidarsi reciprocamente e di esprimersi liberamente.
Le parti parteciperanno attivamente ad ogni fase della procedura essendo della stessa i veri protagonisti, senza mai delegare agli avvocati e agli altri professionisti né la decisione delle questioni in discussione né la comunicazione all’altra parte dei propri bisogni.
La comunicazione nell’ambito di una procedura collaborativa sarà sempre circolare, di tutti nei confronti di tutti gli altri, delle parti direttamente fra loro, del cliente con il proprio avvocato, con l’avvocato dell’altra parte e con gli altri professionisti, degli avvocati fra loro e con gli altri professionisti nonché con l’altra parte, oltre che ovviamente con il proprio cliente.
Poiché saranno importanti non solo le informazioni che hanno rilevanza giuridica ma anche tutte le altre che possono aiutare ad individuare gli interessi di ciascuna parte e quindi favorire la creazione di opzioni, saranno utilizzati un ascolto attivo ed empatico e non selettivo, ed altre tecniche come, ad esempio, la riformulazione, il looping e l’esprimersi in prima persona, modalità di comunicazione queste che consentono la miglior comprensione e il rispetto dell’altro.
La negoziazione avverrà sulla base degli interessi delle parti, emotivi/relazionali (paure, ansie), materiali (sicurezza economica, sicurezza abitativa ecc.), procedurali (la procedura sta andando ad una velocità accettabile per entrambe le parti? il team sta lavorando bene? le informazioni necessarie vengono date tempestivamente e completamente?).
La soluzione risponderà agli interessi di tutti e non sarà necessariamente quella prevedibile secondo la giurisprudenza consolidata, se a decidere dovesse essere un giudice.
Mentre nella negoziazione distributiva, come abbiamo visto, l’obiettivo è ridurre lo spazio del disaccordo, in quella integrativa si negozia sulle differenti valutazioni soggettive domandandosi cosa ha maggior valore per una persona e minor valore per l’altra, così da ampliare le opzioni possibili ed espandere la scelta.
Infine la presenza del team consentirà che ciascuno dei professionisti intervenga al momento giusto secondo la sua area di competenza evitando inutili perdite di tempo e il cronicizzarsi di momenti d’ impasse ed evitando che ciascuno assuma ruoli che non gli competono.
In particolare, la presenza dell’esperto delle relazioni familiari (coach) garantisce che la comunicazione non solo fra le parti ma anche fra i professionisti e fra questi con le parti avvenga nel modo più funzionale alla reale comprensione reciproca e al perseguimento dello scopo della procedura. Interventi tempestivi fanno risparmiare tempo e denaro, oltre che stress.
In buona sostanza è proprio questo contenitore strutturato del conflitto familiare ad essere la miglior garanzia del buon risultato, se tutte le regole vengono rigorosamente rispettate.
Al termine di una procedura Collaborativa l’esperienza vissuta direttamente dalle parti durante il percorso sarà importante quanto il risultato dalle stesse raggiunto e rappresenterà una risorsa preziosa per risolvere altri possibili futuri conflitti.
In che cosa la Pratica Collaborativa è diversa dalla Mediazione Familiare?
Fatta la doverosa premessa che sarebbe più corretto parlare di Mediazioni Familiari considerato il numero di modelli esistenti nel mondo (ad esempio, Mediazione strutturata di Coogler, Mediazione terapeutica di Irving, Mediazione negoziale di Haynes, Mediazione trasformativa di Bush e Folger, Mediazione attraverso la comprensione di Friedman e Himmelstein, per citare solo alcuni dei modelli più famosi), per trattare l’argomento mi baserò sui modelli di mediazione familiare più diffusi in Italia e quindi mi riferirò a quelli applicati dalla SiMef e dall’A.I.M.S.
In entrambi i modelli il contesto di mediazione è formato dalle parti e dal mediatore, senza l’assistenza e la copresenza degli avvocati ai quali le parti sono inviate nei momenti in cui sia opportuna una consulenza di carattere legale o sia necessario, al termine del percorso di mediazione, redigere un atto legale da presentare davanti all’autorità giudiziaria. Durante il percorso di mediazione familiare, salvo questi momenti, gli avvocati sono invitati a mantenersi defilati nel rispetto della cd. tregua giudiziaria che non si riferisce solo alle iniziative giudiziarie vere e proprie ma comprende anche l’intervento stragiudiziale e
per se e per i figli, in cui possano esercitare la comune responsabilità genitoriale.
La mediazione familiare si occupa della riorganizzazione delle relazioni familiari, in special modo per quanto attiene all’esercizio della cogenitorialità, nella separazione e nel divorzio. Essa propone alcune finalità principali, articolate su specifici obiettivi. Le finalità principali sono:
- offrire un contesto strutturato in cui il mediatore possa sostenere la comunicazione tra i partner ai fini della gestione del conflitto e a vantaggio della capacità di negoziare su tutti gli aspetti che riguardano la separazione;
- favorire i genitori nella ricerca delle soluzioni più adatte alla specificità della loro situazione e dei loro problemi per tutti quegli aspetti che riguardano la relazione affettiva ed educativa con i figli.”
(definizione su www.simef.net).
Secondo il modello A.I.M.S. (mediazione sistemica) il Mediatore Familiare è un professionista qualificato a seguito di percorsi di formazione specifici che interviene, quale figura terza, nel percorso di aiuto alla famiglia prima, durante e dopo la separazione o il divorzio, in autonomia dall’ambiente giudiziario, per raggiungere accordi concreti e duraturi concernenti l’affidamento e l’educazione dei minori, nonché tutti gli elementi concernenti l’esercizio della potestà genitoriale e tutto ciò che concerne la divisione dei beni, l’assegno di di mantenimento al coniuge debole o gli alimenti, la residenza principale dei figli e tutto quanto previsto dalla normativa vigente in tema di separazione e divorzio con esplicito riferimento all’attività negoziale (definizione tratta dall’art. 2 dello Statuto dell’associazione pubblicato sul sito www.mediazionesistemica.it) l’”affiancamento” continuo del difensore rispetto al cliente che in quel momento sarebbe vissuto come elemento di disturbo al lavoro della coppia con il mediatore.
In entrambi i modelli il mediatore familiare si pone come terzo imparziale rispetto alle parti, ovvero neutrale sia pur nell’accezione di Resta11 , ossia non con l’atteggiamento in cui non si è né con l’uno né con l’altro ma, al contrario come l’apertura ad essere e con l’uno e con l’altro.
Sul tema della neutralità del mediatore familiare ho già scritto un articolo pubblicato sul sito www.spaziomef.it , al quale rimando, dove evidenziavo i vantaggi e al tempo stesso i limiti e rischi, per alcune coppie, di tale assetto.12 Molte persone, soprattutto all’inizio di una vicenda separativa, hanno bisogno di essere sostenute individualmente, hanno bisogno di sentire a fianco qualcuno che sia li solo per loro, cosa questa che la presenza di un avvocato per ciascuna parte nel team collaborativo garantisce a differenza del mediatore familiare che, al più, può essere presente e per l’uno e per l’altro.
Fra i rischi più generali segnalavo già allora quello dell’autoreferenzialità per ovviare al quale deve essere sempre prevista una verifica da parte dell’avvocato, sia sotto il profilo della consulenza legale che della redazione formale dell’accordo all’esito del percorso di mediazione.
Ebbene, per certi versi la separatezza della stanza del mediatore rispetto allo studio dell’avvocato, rappresenta essa stessa un rischio, anche nel momento in cui l’una vuol funzionare da garanzia di correttezza del percorso giunto a termine nell’ambito dell’altra.
Se valutiamo la situazione in una prospettiva generale, dei grandi numeri, e non consideriamo specifici casi di particolare sintonia, fiducia reciproca e abitudine a lavorare insieme, separati ma nella stessa direzione, tra alcuni avvocati ed alcuni mediatori familiari, il rischio insito in questo lavoro su due tavoli diversi e successivi può presentare incognite che la creazione del team collaborativo previene.
Lo stesso Stu Webb, nella lettera richiamata all’inizio, evidenziava come punto debole della mediazione familiare il fatto che il lavoro degli avvocati venga lasciato fuori da tale percorso ai suoi esordi, perché con l’atteggiamento fazioso e conflittuale di alcuni, si lascia fuori la capacità di trovare soluzioni ragionevoli ai problemi creando alternative costruttive di altri.
Nel prefigurare la struttura del Diritto Collaborativo Stu Webb intravedeva il suo punto di forza proprio nella maggior continuità tra l’accordo definito in sede collaborativa e l’accordo di cui verrà chiesta l’omologa.
Il team collaborativo, dunque, consente la contestualità dei diversi interventi (legale, psicologico ed economico) nella garanzia della condivisione degli obiettivi e dei metodi, la comunicazione fra i vari professionisti del team (che in tali termini è sempre esclusa fra mediatore familiare e gli avvocati esterni di ciascuna parte e anche con l’unico avvocato di entrambe) e l’assistenza legale individuale che non fa sentire solo il cliente.
La copresenza nel team collaborativo di elementi di “advocacy”, data dagli avvocati, e di “neutralità”, data dagli esperti imparziali garantisce un blend prezioso per sviluppare tutte le potenzialità creative di un pensiero collettivo che si sviluppa in un contesto in cui alleanza tra due non significa contrapposizione verso gli altri e dove anzi la sicurezza di essere sostenuti costituisce la base per “esporsi” e per capire l’altro favorendo l’individuazione di una soluzione nell’interesse di tutti.
Infine, come già abbiamo visto, nel team il ruolo dell’avvocato è molto diverso da quello che egli svolge in modo tradizionale e quindi anche a quello dell’avvocato che verifica un accordo raggiunto altrove e senza la sua assistenza, come avviene nel percorso di mediazione familiare italiana.
Tutto questo non toglie valore alla Mediazione Familiare che rimane una validissima opzione per alcune coppie, così come la Pratica Collaborativa lo è per altre.
La scelta dell’opzione procedurale più adatta al cliente
Una della fasi più delicate è proprio quella del primo colloquio dell’avvocato con il potenziale cliente perché durante tale incontro il professionista dovrà prospettare a questi le diverse opzioni procedurali ed aiutarlo a capire quale di esse è la più adatta al suo caso.
Questo momento è complesso e cruciale perché, da un lato, non è facile richiamare l’attenzione di un cliente, quasi sempre concentrato esclusivamente sugli obbiettivi materiali da raggiungere e sul problema da risolvere (figli, casa, denaro ecc.), sull’importanza della scelta della procedura e sul fatto che le modalità e i percorsi che sceglierà determineranno una grande differenza nei modi in cui verrà posto fine a quella storia. Nel primo colloquio è cruciale trovare un giusto bilanciamento fra l’attenzione alla storia del cliente e alle questioni da risolvere (what), da un lato, e l’attenzione da riservare a come arrivare alla soluzione di esse (how), dall’altro.
Inoltre, lo screening dei casi adatti ad essere gestiti con una procedura piuttosto che con un’altra è cruciale perché avviare un cliente, che potrebbe essere capace di risolvere nell’ambito di un percorso di mediazione familiare o di una pratica collaborativa la sua situazione familiare, verso un contezioso sarebbe gravido di conseguenze negative, tanto quanto impegnare un cliente in una procedura collaborativa per la quale lo stesso non abbia alcuna attitudine o verso la quale il caso presenti chiare contrindicazioni.
L’indicazione delle opzioni procedurali dovrebbe essere laica e non ideologica, in un senso e nell’altro, ossia né a vantaggio della procedura che il professionista pratica e/o privilegia né a svantaggio di quelle che egli non pratica e per le quali nutre magari grande diffidenza.
Ogni famiglia è differente dall’altra e ogni persona ha bisogni specifici ai quali le diverse procedure possono rispondere in modo completamente diverso nella ricchezza delle loro diverse specificità.
Queste considerazioni che da un punto di vista teorico possono parere scontate nella pratica risultano non facili da attuare proprio se vogliamo che la scelta del cliente non si risolva in una mera formalità, come purtroppo molte volte avviene in campo medico quando viene chiesto il consenso informato.
La comunità collaborativa
Date le premesse teoriche che ispirano la Pratica Collaborativa non è dunque un caso che la stessa nel mondo sia organizzata attraverso una vera e propria comunità nella quale le varie organizzazioni operanti nei differenti Stati si ritrovano strettamente connesse e comunicanti.
Mentre possiamo essere eccellenti avvocati solisti in senso tradizionale non possiamo sperare di ottenere alcun buon risultato come avvocati collaborativi se non interagendo con altri professionisti, altrettanto capaci e competenti.
Da qui nasce l’interesse reciproco ad un elevato livello di formazione, ad un costante aggiornamento, a coltivare dinamiche relazionali fra professionisti improntate a chiarezza, anche al prezzo di “conversazioni difficili”, ad un continuo confronto nell’ambito di gruppi sempre più ampi: dal team che lavora allo specifico caso, ai gruppi che riuniscono numerosi professionisti con competenze diverse (più avvocati, più commercialisti, più psicologi ecc.) che esercitano la pratica collaborativa nell’ambito di un certo territorio, fino ad arrivare all’associazione di carattere internazionale quale l’International Academy of Collaborative Professionals (IACP) www.collaborativepractice.com, che ha sede in Phoenix (AZ), alla quale aderiscono attualmente circa 5.000 professionisti, appartenenti a 24 Stati diversi, che promuovono nel mondo la pratica collaborativa.
Ogni anno l’IACP organizza un Forum che rappresenta il momento più importante del costante confronto dei suoi associati che in quell’occasione convergono da ogni parte del mondo per scambiare esperienze, individuare ulteriori obiettivi, condividere momenti di formazione e di aggiornamento.
In Italia operano due associazioni che promuovono la Pratica Collaborativa, nate quasi contemporaneamente nel 2010, l’Associazione Italiana degli Avvocati di Diritto Collaborativo (AIADC), con sede a Milano, e l’Istituto Italiano di Diritto Collaborativo (IICL), con sede a Roma.
Per quanto riguarda l’AIADC, alla quale appartengo, posso dire che in questi primi anni ci siamo prevalentemente occupati di formarci e formare altri professionisti organizzando molti corsi di formazione, avvalendoci sempre di formatori stranieri, prevalentemente americani, per la pluriennale esperienza degli stessi sul campo ed anche per l’approccio formativo particolarmente valido. Inoltre nelle regioni dove siamo maggiormente presenti, la Lombardia e la Toscana, sono funzionanti due Practice Group, di circa 60 iscritti ciascuno, i cui componenti si incontrano regolarmente per confrontarsi su dubbi, questioni aperte, per progredire in una sorta di autoformazione costante fra un corso di formazione vero e proprio e l’altro, per individuare le modalità di diffusione e promozione di questa modalità di risoluzione delle controversie fra i cittadini, obiettivo che in questa seconda fase diventa prioritario.
Recentemente, al termine di un corso di formazione tenutosi nell’aprile scorso, anche il Piemonte ha ormai un proprio Practice Group e l’auspicio è che anche in altre città e regioni dove vi sono già alcuni professionisti formati alla Pratica Collaborativa possano decollare queste comunità locali – piccole o grandi che siano – che rappresentano la condizione essenziale per la realizzazione dell’obbiettivo che ci siamo posti.
La partecipazione ai diversi livelli – locale, nazionale ed internazionale.- nei modi in cui ciascuno di noi può e vuole, ma sempre e comunque in una circolarità d’informazione, sta facendo crescere, almeno nei più assidui, la sensazione di far parte di qualcosa di più grande, di un movimento che nel mondo intero s’impegna con passione e pazienza per la pacificazione dei rapporti fra le persone e per un modo diverso di gestire e superare i conflitti.