Perché la Pratica Collaborativa ha cambiato la mia vita
Quando, nel marzo 2010, mi sono avvicinata per la prima volta alla Pratica Collaborativa, frequentando il primo corso introduttivo di formazione, non immaginavo quale cambiamento nella mia vita, non solo professionale, avrebbe provocato quell’incontro.
Per capire, però, perché oggi posso dire che la Pratica Collaborativa ha cambiato la mia vita devo raccontare un po’ della mia storia.
Perché sono diventata un avvocato “matrimonialista”
Mi sono iscritta alla facoltà di giurisprudenza, con l’idea, già allora, di diventare un avvocato “matrimonialista”, come si diceva all’epoca, perché avevo un sogno, ossia quello di riuscire ad aiutare le coppie a separarsi bene e a non bloccare, per sé e per i figli, a causa di quel complesso passaggio esistenziale, tutte quelle potenzialità ed energie vitali che, quando le sentiamo piene in noi, fanno amare la vita.
Avevo forti ragioni personali, familiari, per avvertire come prioritario quell’impegno a far sì che soprattutto i figli non venissero limitati da un legame irrisolto dei genitori.
Dopo il conseguimento della laurea in diritto del lavoro con quel grande maestro che è stato per me il Prof. Giuseppe Pera, mi sono, dunque, affacciata alla professione forense con questa forte motivazione personale ed ho avuto la fortuna di entrare in quel mondo dall’ingresso principale e guardare ad esso da una prospettiva molto privilegiata, facendo pratica e poi collaborando nell’ambito di uno dei migliori studi legali della mia città, Lucca, a fianco di un importante avvocato civilista, l’Avv. Pier Luigi Del Frate, nella consuetudine della frequentazione di avvocati altrettanto competenti, impegnati e corretti.
Anche il mio dominus è stato per me un grande maestro dal quale ho imparato, prima di tutto, che la più importante qualità di un avvocato è la libertà di pensiero, di fronte a chiunque, dal primo Presidente di Cassazione all’ultimo usciere di Tribunale.
Separazioni e divorzi, però, erano gestiti da tutti, anche dai migliori avvocati, in modo molto lontano dal rappresentare per i clienti la soluzione dei loro problemi e da quanto mi ero immaginata che avrei potuto fare per le persone che attraversavano una crisi di coppia.
Mi rendevo conto che l’ascolto dell’avvocato era tanto garbato e attento quanto selettivo, limitato, come era, ai fatti rilevanti giuridicamente; che l’attenzione era rivolta prevalentemente al passato, nello sforzo di individuare comportamenti non corretti dell’altra parte, per motivare richieste ed eccezioni da spendere nel giudizio contenzioso e da far valere nella preliminare trattativa, per convincere l’altra parte della convenienza della soluzione proposta di fronte al rischio di un giudizio dall’esito prevedibilmente contrario sulla scorta delle prove disponibili; che la gestione del presente era basata sulla sostanziale cristallizzazione del passato, senza proiezioni e progetti per il futuro; che l’avvocato riceveva una sorta di delega in bianco dal proprio cliente il quale, per decisioni anche quotidiane – che nulla avevano a che vedere col diritto – diventava dipendente dal consiglio del professionista.
Da giovane procuratore legale, quale allora ero, mi meravigliavo che gli avvocati più anziani si dichiarassero soddisfatti quando nell’ambito di una trattativa stragiudiziale riuscivano a concordare condizioni di accordo delle quali i rispettivi clienti erano entrambi un po’ scontenti perché consideravano quella la migliore prova dell’equità dell’accordo raggiunto.
Da giovane procuratore legale alla ricerca di un modo diverso di gestire il conflitto familiare
Mi fu subito chiaro che, seguendo quel modello, non avrei potuto realizzare il mio sogno – di aiutare davvero le persone a separarsi nel migliore dei modi – e che, al massimo, avrei potuto sperare che entrambe le parti rimanessero ugualmente scontente del risultato delle trattative dei loro avvocati.
Ma non mi rassegnai a quella possibilità e, forte della determinazione data dalle mie personali motivazioni, iniziai a cercare nuovi e diversi modi per esercitare la mia professione.
Al mio sogno non volevo proprio rinunziare!
Capii subito anche un’altra cosa, ossia che la formazione universitaria, basata esclusivamente sulle cognizioni di carattere legale, non mi sarebbe stata sufficiente e sentii il bisogno di acquisirne una multidisciplinare.
A metà degli anni 80 in Italia, però, non si era ancora diffusa l’area della psicologia giuridica in ambito civile e non era ancora arrivata neppure la mediazione familiare.
M’iscrissi, allora, ad un corso di formazione in terapia familiare ad indirizzo sistemico, grazie alla disponibilità dei direttori dell’Istituto di Terapia Familiare di Firenze, il Prof. Rodolfo De Bernart e la Dott.ssa Cristina Dobrovolsky, che mi permisero di frequentarlo nonostante la mia qualifica professionale di avvocato. Allora certe contaminazioni fra professioni diverse erano tutt’altro che ricorrenti e quell’accesso fu reso possibile dalla grande apertura mentale e dalla modernità di impostazione della direzione di quella Scuola.
Quel percorso formativo di cinque anni, in compagnia di psicologi e psichiatri, ha rappresentato un’esperienza senza la quale sarei stato un avvocato completamente diverso da quello che sono diventata. Quel cammino mi ha dato, infatti, strumenti e chiavi di lettura che hanno affinato molto la qualità del mio rapporto con il cliente e la comprensione dei fatti.
Tuttavia il contesto intorno a me e al cliente rimaneva il medesimo e, con le nuove competenze acquisite, avvertivo ancor di più il senso di impotenza, come avvocato, ad essere di sostanziale aiuto al cliente, anche quando la causa, secondo il senso comune, era vinta o la trattativa aveva conseguito il miglior risultato possibile per la parte da me rappresentata.
Dopo qualche dubbio sulla mia identità professionale capii, però, che a me piaceva continuare ad essere un avvocato, avrei solo voluto esercitare la mia professione in modo diverso.
Si era ormai arrivati all’inizio degli anni ’90 e, nel frattempo, in Italia era stata faticosamente introdotta la mediazione familiare e, dunque, decisi di intraprendere anche quel percorso formativo frequentando per due anni a Roma il Centro per l’Età Evolutiva, aderente alla Simef- Società Italiana di Mediazione Familiare, diretto dal Dott. Francesco Canevelli e dalla dott.ssa Marina Lucardi.
Anche quelli furono anni di grande crescita ma ad un numero sempre maggiore di strumenti nella mia cassetta degli attrezzi per aiutare le persone in modo più adeguato alle loro esigenze corrispondeva, sempre più grande, la sensazione di non poter adoperare tutto quanto avevo imparato perché il contesto giudiziario non lo consentiva.
Per molti anni, perciò, ho avuto la sensazione di essere alla guida di una Ferrari su un viottolo di montagna che mi costringeva ad utilizzare solo le marce più basse, senza mai ingranare la quinta.
Il primo incontro con la Pratica Collaborativa, nel marzo 2010, e la costituzione della associazione AIADC
Finalmente, nel marzo 2010, grazie all’intuizione dell’allora suo presidente, Milena Pini, l’Aiaf Lombardia, diramazione territoriale dell’Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minori, associazione della quale faccio parte sin dalla sua costituzione, organizzò a Milano un corso di formazione base sul Diritto Collaborativo.
A quel primo corso partecipammo in 64 avvocati iscritti a tale associazione e le prime nostre formatrici furono due colleghe canadesi.
Con i colleghi di quel corso introduttivo costituimmo subito una nuova associazione, l’AIADC – Associazione Italiana Avvocati Diritto Collaborativo, alla quale, dopo cinque anni avremmo cambiato il nome in Associazione Italiana Professionisti Collaborativi per dare conto dell’evoluzione nel senso della multidisciplinarità della componente professionale dei suoi soci, e ci ponemmo l’obiettivo di formare altri professionisti e di promuovere la Pratica Collaborativa in Italia.
A quel primissimo stadio della formazione ho creduto, come gli altri colleghi, che si trattasse solo di un nuovo metodo, seppur molto interessante, per affrontare le liti familiari.
Tutto, infatti, doveva ancora succedere e successe quando, a Bad Aibling, vicino Monaco nel giugno del 2010 conobbi Jack Himmelstein, Gary Friedman e Sherri Slovin Goren perché solo grazie a loro iniziai a capire che dietro quel modo nuovo di affrontare il conflitto c’era un altro mondo e non si trattava solo di una tecnica diversa.
Con l’incontro di quelle tre persone capii che mi stavo avvicinando a casa, alla possibilità di veder finalmente realizzato il mio sogno, cosa di cui ebbi certezza quando, nell’ottobre di quello stesso anno, mi recai al Forum che l’IACP – International Academy of Collaborative Professionals – organizza tutti gli anni in una città diversa, quell’anno a Washington, quale momento di connessione e di formazione per le varie comunità collaborative che esistono nel mondo.
Ero davvero arrivata a casa!
La speranza di un mondo migliore
Da allora tanti nomi, tanti volti, tanti amici si sono aggiunti a quei primi tre mentori ed amici come, solo per citarne alcuni, Barbara Hummel, Shireen Meistrich, Susan Hansen, Diane Deal, Victoria Smith ma potrei ricordarne tanti e tanti altri ancora.
Quella prima sensazione, così bella e profonda, che avevo provato a Washington non mi ha mai abbandonato, si è ripetuta tutti gli anni e continua ad accompagnarmi ogni giorno, dandomi la sicurezza di avere la possibilità di continuare ad apprendere e migliorarmi, anche mediante il contatto e il confronto con chi ha più esperienza di me. Sia nella procedura che nella formazione lo stimolo e l’aiuto che ti viene dagli altri, vicinissimi, magari nella tua stessa città, o lontanissimi, magari in altro continente, mette in moto energie che diversamente non si mobiliterebbero in modo altrettanto positivo.
Fino allora mi ero tanto impegnata per migliorarmi, acquisire maggiori competenze e cambiare il mio modo di lavorare; da quel momento ho capito che non ero più sola a volere ciò e che, tutti insieme, avremmo potuto cambiare il mondo, ciascuno cambiando prima di tutto se stesso ed operando nell’ambito della propria comunità.
Ed oggi, grazie alla Pratica Collaborativa e alle persone con le quali sono venuta in contatto per questa, vicine e lontane, vedo il mondo e vivo in un modo completamente diverso da prima.
Come professionista sono passata attraverso un cambiamento simile a quello che chiediamo alle persone che assistiamo nell’ambito di una Pratica Collaborativa: il mio sguardo si è spostato dall’essere concentrato sulla profonda comprensione del passato verso una progettualità del futuro alla quale oriento il cliente durante quel faticoso ed importante percorso di ricostruzione che mi vede al suo fianco e di cui la speranza, piuttosto che il ricordo, diventa l’elemento di fondo.
L’esperienza dell’Harvard Negotiation Institute
Da quando mi sono formata alla Pratica Collaborativa ho sempre avuto la curiosità di capire meglio il modello di negoziazione basato sugli interessi nella versione della scuola di Harvard.
La Pratica Collaborativa, infatti, ha mutuato il tipo di negoziazione da quel modello declinandolo però in modo diverso perché lo ha potuto collocare all’interno di quel contenitore sicuro costituito dai suoi principi.
Mi ha spinto ad Harvard il desiderio di capire come avrei potuto negoziare in quello spazio di mezzo fra la negoziazione basata sulle posizioni (nella quale sono cresciuta durante gli anni dell’università ed in quelli di formazione alla professione forense) e la negoziazione collaborativa di più recente acquisizione.
Cosa fare fuori dal contenitore collaborativo per non essere costretto a giocare quel gioco a somma zero che sin dall’inizio ho cercato di superare riservandolo all’eccezione?
Nell’estate 2019 sono riuscita a realizzare questo progetto e ad Harvard, grazie al Prof. Robert Bordone e la sua equipe, ho trovato le risposte che cercavo, e, soprattutto, è come se in quella storica università avessi trovato il modo di tracciare un continuum, non solo fra le varie opzioni procedurali per affrontare un conflitto, ma anche fra le varie fasi della mia vita professionale, dove ciascun pezzo di strada ha avuto una grande importanza, ha arricchito il precedente e consentito il risultato finale che è poi sempre un punto di ulteriore partenza.
Per concludere, e ripartire
Dopo trentacinque anni di esercizio della professione sento ancora più forte la passione e la convinzione per il mio lavoro di quanta ne avvertissi all’inizio, convinta, come sono oggi, che l’avvocatura può fare molto di più che essere solo garantedei diritti dei clienti. Può diventare anche agente di un sostanziale cambiamento nella modalità di affrontare i conflitti fra le persone così da rendere il mondo un luogo migliore per tutti.
Di tutto questo non posso che essere infinitamente grata ai tanti maestri che ho incontrato lungo il mio cammino.