A definizione del caso, mi fa piacere condividere con gli altri professionisti collaborativi (e con tutti coloro che avranno voglia di leggermi) l’esperienza di un percorso di “mediazione collaborativa” svolto durante lo scorso anno e conclusosi felicemente con il deposito di ricorso congiunto per ottenere la separazione personale.
Dopo essere stata contattata per la separazione da una parte, che mi ha cercato venendo a conoscenza del particolare approccio collaborativo cui ero formata, la stessa, leader di azienda, con due attività e tre figli a carico, già separata di fatto da qualche tempo, ha molto insistito perché evitassimo di coinvolgere un secondo legale: voleva che provassi a mediare la risoluzione del rapporto conflittuale con l’altro genitore, senza invitarlo a prendere a sua volta un proprio legale collaborativo.
Dopo avere a lungo spiegato che la Pratica avrebbe potuto perdere una delle sua caratteristiche principali, che è quella di avere un legale alleato e vicino a ciascuna parte e nello stesso tempo interlocutore solidale con l’altro collega e con il team, preso atto della determinazione e anche della consapevolezza di quella particolare persona, ho avanzato l’ipotesi di proporle e poi eventualmente sperimentare una “mediazione collaborativa”, nella quale io avrei svolto il ruolo di mediatore terzo e che avrebbe comunque dovuto coinvolgere almeno un altro professionista collaborativo, in questo caso un esperto finanziario, considerati i molteplici risvolti economici riguardanti le differenze di reddito, la divisione immobiliare della casa familiare acquistata con quote e apporti differenti, le aspettative lavorative, ancora parzialmente in evoluzione, di una delle due parti e altro ancora.
Non voglio entrare nei dettagli del caso che sono riservati e paiono inutili allo scopo che mi prefiggo oggi con questo scritto, ma vorrei soprattutto condividere alcune considerazioni che mi hanno fatto riflettere, a mediazione conclusa.
A seguito di breve narrazione dell’esperienza, alcuni colleghi hanno sostenuto che non si poteva parlare, in questo caso, di una “Pratica Collaborativa”, considerata la mancanza dei due legali, che costituiscono un elemento necessario del modello.
Mi sono allora chiesta cosa, secondo me, contraddistingue un percorso collaborativo, indipendentemente dal nome che gli si voglia dare: innanzi tutto l’accettazione e la sottoscrizione di un accordo di partecipazione che preveda il rispetto di tutti i principi collaborativi (lealtà, trasparenza, riservatezza e mandato limitato). Nel nostro caso l’accordo di partecipazione è stato condiviso, ben compreso da entrambe le parti e sottoscritto da clienti e professionisti.
Gli incontri si sono svolti sempre con la presenza attiva delle parti che hanno condiviso con i professionisti (che li hanno tenuti riservati) i documenti importanti, le loro difficoltà, bisogni e desideri. Non sono mancati momenti di tensione, in cui il lavoro dei mediatori è stato particolarmente difficile e delicato, soprattutto per i ruoli di terzietà che entrambi dovevano impersonare, non senza perdere quello di garanti dei principi della pratica collaborativa.
E’ pure emerso, e chiaramente manifestato soprattutto da una parte (“forse aveva ragione lei, avremmo dovuto prendere due legali”), che nei momenti di difficoltà è mancata la presenza di un legale personale per ciascuna parte.
Noi professionisti, durante il percorso, abbiamo anche temuto di averli persi dopo un lungo periodo di silenzio; ma così non è stato, sono poi ricomparsi condividendo con noi il fatto che avevano avuto bisogno di tempo per elaborare un principio di accordo, che è stato poi perfezionato nei dettagli da tutti e quattro insieme.
Insomma alla fine ce l’hanno fatta!
E credo che questa prima esperienza di “mediazione collaborativa” sia stata emblematica per avere messo in evidenza almeno questi quattro punti:
- quanto sia importante la comprensione e consapevolezza delle parti rispetto al percorso che scelgono di intraprendere (credo che la buona riuscita in questo caso sia la diretta conseguenza dell’impegno personale che entrambi ci hanno messo, sia all’interno che fuori dal percorso collaborativo)
- che quello che contraddistingue una pratica (o mediazione) collaborativa è soprattutto il rispetto dei valori insiti nel modello, previamente condivisi, compresi e accettati. Sono loro che devono continuare a segnare la via (in alcune pratiche collaborative, con tutti i crismi rispettati, ci si può accorgere a percorso iniziato che le parti non avevano ben compreso la serietà dell’impegno assunto, e quindi sottovalutino i principi)
- che la presenza di un legale per ciascuna parte è indubbiamente molto importante nell’accompagnamento, passo dopo passo di ciascun portatore di interesse, soprattutto nei momenti di difficoltà
- che allo stesso tempo ci possono essere situazioni in cui le persone scelgono di apprendere, o sono già capaci di dialogare, ascoltarsi reciprocamente, rispettare i valori della pratica collaborativa, chiedere e darsi il tempo necessario per le reciproche elaborazioni.
La questione importante è che tutti i soggetti seduti al tavolo, parti e professionisti siano perfettamente consapevoli di quello che è il contesto anche “tecnico” in cui si trovano ed in cui stanno operando/lavorando.
Ps. Prima di fare uscire il pezzo ho voluto condividere queste mie considerazioni sia con l’altro professionista collaborativo coinvolto nel caso che con le stesse parti.