Nessun artista meglio di Michelangelo è riuscito a raffigurare lo sforzo necessario per uscire dalla materia, a descrivere la difficoltà e la forza con cui, nell’atto di separazione, si porta a compimento una nascita. Pur non giungendo a una forma, i Prigioni trovano la propria forza nel movimento con cui si staccano dalla materia: di quella forza e di quella difficoltà Michelangelo fa la propria opera. A questa penso quando davanti a me vedo coppie battagliare per definire una separazione, per costruire o ritrovare un io e un tu che nella relazione, in qualche modo, sembrano essersi persi. Se non giunge a compimento, il movimento resta moto di rabbia con cui ci si sente defraudati, espropriati, non riconosciuti, riducendo l’altro a ragione di impedimento. Il processo con cui si giunge a una separazione fa la differenza: lasciare che altri, per quanto esperti in materia di separazione, stabiliscano cosa è giusto, ragionevole e desiderabile per esistere e nella relazione con i propri cari costituisce un atto di auto-espropriazione, così come rovesciare sull’altro la responsabilità del fallimento di un’impresa costruita in due è un atto di automutilazione. Quando ci si vuole convincere che la colpa sia dell’altro, ci si espropria di una responsabilità che è strutturante e costitutiva per ciascuno di noi.
La Pratica Collaborativa fa in modo che tutto questo non avvenga; nella Pratica Collaborativa sta a ciascuno dei coniugi trovare le parole, esprimere paure, esigenze e desideri, mettere in campo, insieme alle difficoltà, le risorse di cui si dispone perché il processo di separazione non trovi nella rivendicazione un presunto moto di auto-affermazione. Non si tratta di dividere contabilizzando quel si crede di avere o di perdere, quanto piuttosto di dare forma e vita a un progetto in cui l’uno e l’altro si distinguano nella forza e nella capacità creativa. Così come, sbaragliando la logica matematica, rispetto ai figli ciascun genitore è responsabile al 100%, così l’accordo che i coniugi possono trovare in una separazione collaborativa va oltre ciò che il diritto può offrire loro in termini di spartizione di tempo, denaro, affetti, doveri e diritti appunto. Il diritto a esistere con forza, slancio e audacia non può essere dato da terzi, così come testimonia la frustrazione di tanti avvocati che usciti vincitori da una causa di separazione si imbattono nello sguardo avvilito dei propri assistiti che, pur vincendo, sanno di aver perso. Come ci indica con forza Michelangelo, la separazione è un atto creativo. Se si rinuncia a questo, se ci si appiattisce a un presunto realismo fatto di cose e impegni da spartirsi, a risaltare è quella tristezza che, in presenza dei figli, si dispiega dinnanzi ai loro occhi divenendo insegnamento di indolenza e vittimismo.
La Pratica Collaborativa mette al centro gli interessi di ciascuno, primo tra tutti l’interesse per i figli perché fungono da ispirazione alla creazione di nuovo progetto familiare capace di andare oltre le ragioni del conflitto. Ecco che quel che appare un ossimoro ‘separazione collaborativa’, acquista senso e valore in una pratica che non elude la difficoltà e che mette al centro la responsabilità di ciascuno chiamando intorno al tavolo le parti che si impegnano a creare soluzioni e trovare un accordo che ha come fondamento gli interessi di entrambe i coniugi.
Pur lasciando irrisolta la situazione di tante famiglie che costituivano sino alla scorsa generazione la consuetudine di accordi familiari che vedevano un coniuge dedito al lavoro e l’altro ai figli e alla casa, dell’ultima nota sentenza della cassazione (10/05/2017 n° 11504) resta una bella indicazione: l’importanza della costruzione di un’indipendenza indispensabile perché la famiglia non divenga ambito d’elezione del sacrificio e della rivendicazione. Questa suggestione può ispirare tutte le figure coinvolte nella Pratica Collaborativa che, lasciando all’orizzonte specifici saperi in materia di separazione, prestano ascolto alle esigenze, agli interessi e ai desideri dei coniugi per dare insieme a loro forma a un progetto in cui si distinguano due individui, liberi di costruirsi un avvenire, di amare e occuparsi dei propri figli. Lavorando come psicoterapeuta ho in mente quotidianamente la difficoltà con cui una persona, provocata da un sintomo o mossa da un disagio, si mette in gioco arrivando a dire cose che si fatica ad ammettere anche a se stessi, trovando nelle proprie parole e nell’elaborazione il sollievo di una lettura inedita; si tratta di una difficoltà che ha molti elementi in comune con quella che incontrano due coniugi che, accogliendo e facendo propri i principi di trasparenza e buona fede, si impegnano a separarsi collaborando: in entrambe i casi quel che è in gioco è un percorso di sogettivazione, quel processo con cui, differenziandosi, ci si individua.