Le questioni deontologiche con cui il professionista collaborativo è chiamato a confrontarsi sono molteplici e discendono dai principi stessi della Pratica Collaborativa.
Il professionista collaborativo è in primo luogo tenuto a rispettare le norme deontologiche della propria categoria professionale e del proprio codice deontologico di riferimento, ove esistente. Questo principio è fondamentale: gli aspetti deontologici specifici della Pratica Collaborativa sono molti, ma si aggiungono e non certo si sostituiscono alle prescrizioni che ogni professionista
è comunque tenuto a rispettare.
Questa prospettiva è talmente importante che lo Statuto della nostra associazione (art. 6.1) prevede come condizione per l’ammissione come socio e per il successivo mantenimento della qualità di socio il non aver ricevuto condanne definitive di natura deontologica (fatta salva la valutazione del consiglio direttivo); e prevede inoltre l’impegno dell’aspirante socio prima e del socio poi di autocertificare al consiglio direttivo l’eventuale pendenza di procedimenti disciplinari.
Gli standard etici fissati da IACP – cui la nostra associazione espressamente si richiama – prevedono poi che qualunque conflitto tra le norme deontologiche e gli standard stessi andrà risolto a vantaggio delle norme deontologiche.
Fatta questa premessa, tra le varie questioni deontologiche che coinvolgono il professionista collaborativo, una mi pare di particolare interesse: la gestione dell’equilibrio tra riservatezza e trasparenza e come questo equilibrio sia diverso a seconda del ruolo svolto dai singoli professionisti nella Pratica Collaborativa.
Quanto alla riservatezza, le norme che guidano il professionista collaborativo sono scritte nell’Accordo di Partecipazione e si tratta di previsioni molto simili a quelle adottate successivamente dalla normativa sulla negoziazione assistita (link esterno): divieto di utilizzare informazioni apprese o documenti esibiti o formatisi durante una pratica, limitazioni alla possibilità per i professionisti di testimoniare, ecc.
Sotto questo profilo, per gli avvocati in particolare la previsione del mandato limitato è di conforto – a differenza di quanto previsto testualmente per la negoziazione assistita – nel gestire i possibili conflitti di lealtà che potrebbero conseguire a questa previsione.
Quanto invece alla trasparenza, nella Pratica Collaborativa le parti si impegnano a rivelare tutte le circostanze rilevanti – dove per rilevanti si intendono le circostanze capaci di influire sul processo decisionale dell’altro.
Da un punto di vista deontologico, rileva chi può fare la rivelazione e come tale rivelazione può essere gestita.
Gli avvocati sono innanzitutto tenuti al segreto professionale nei confronti del loro cliente: non possono quindi rivelare nulla senza il consenso espresso del cliente e questo consenso va ottenuto di volta in volta, e non può essere ritenuto presunto o implicito nella mera sottoscrizione dell’accordo di partecipazione. Il punto diventa quindi come l’avvocato si comporta di fronte alla consapevolezza che il cliente sta tacendo o omettendo di condividere un’informazione rilevante. In questi casi l’avvocato deve stimolare la riflessione del cliente sulle conseguenze dell’omissione e portare il cliente al rispetto dell’impegno assunto nel momento della scelta della Pratica Collaborativa. Ove il cliente decida di non essere trasparente l’avvocato dovrà rinunciare al mandato, senza ovviamente rivelare la circostanza in questione. A mio avviso tuttavia, l’avvocato collaborativo dovrà però essere trasparente con il collega, lasciandogli comprendere che la questione di fiducia che ha portato all’interruzione del mandato riguarda i principi della Pratica Collaborativa.
Per i professionisti neutrali la questione è ancora diversa: essi ricevono un mandato congiunto dai clienti e sono dunque professionisti di fiducia di entrambi. Come parte del mandato (e nell’Accordo di Partecipazione sottoscritto dai clienti) vi è l’espressa facoltà per il professionista neutrale di condividere con tutti i professionisti del team le informazioni apprese nel corso della pratica; e vi è l’espressa previsione circa l’impossibilità per il professionista neutrale di mantenere segreti tra una parte e l’altra.
Sotto tutti questi profili diviene rilevante il tema del consenso informato: i professionisti devono essere chiari nello spiegare la portata dell’impegno preso al momento della sottoscrizione dell’Accordo di Partecipazione e le possibili conseguenze dello stesso. Questo si rileva particolarmente importante sia per gli psicologi sia per i commercialisti, che nella Pratica Collaborativa acquisiscono con il cliente un ruolo diverso da quello che normalmente assumono nello svolgimento della propria professione.
Ovviamente questo non significa che ogni minimo dettaglio debba essere condiviso. Le informazioni che vanno condivise sono quelle rilevanti, ovvero capaci di influire sulle scelte dell’altro: occorre chiedersi se questa condivisione possa essere importante per creare e consolidare la fiducia reciproca; occorre chiedersi se l’omessa condivisione e la successiva scoperta possa al contrario minare la fiducia acquisita. In ogni caso, a mio avviso, in caso di dubbio l’informazione va condivisa.