Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. Civ. sez. 1 n. 27703-2020 del 31.2.2020) sviluppa una accurata riflessione su un aspetto particolare della riservatezza, ossia sul diritto-dovere dell’avvocato di astenersi dal deporre su circostanze apprese per ragione del proprio ministero difensivo o della propria attività professionale.
Il caso è questo: due avvocati assistono un soggetto in una trattativa stragiudiziale. Successivamente lo stesso soggetto si trova a dover formulare una difesa in processo tutelato da altro legale ed intima ai due legali che lo avevano in precedenza assistito di deporre su fatti intervenuti nel corso della trattativa stragiudiziale. I due legali esercitano la facoltà di astensione e non depongono. La parte che aveva richiesto la deposizione dei due legali ritiene illegittima l’astensione asserendo, in sostanza, che la facoltà di astensione riguarderebbe solo il legale che assume la rappresentanza della parte in processo. La questione arriva alla Corte di Cassazione.
La dinamica è simile a quella nella quale potrebbe venire a trovarsi un avvocato collaborativo che abbia assistito una parte in un procedimento collaborativo e si veda chiamato a deporre, in procedimento avviato da altro legale, su circostanze occorse durante la negoziazione collaborativa.
La Corte di Cassazione chiarisce la piena legittimità dell’esercizio del diritto-dovere di astensione dell’avvocato, con riguardo a circostanze conosciute per ragione del proprio ministero difensivo o dell’attività professionale, anche qualora tali circostanze si siano state apprese in una fase diversa da quella processuale ed anche qualora il difensore sia diverso dal legale che rappresenta la parte in processo.
La Corte motiva la propria decisione innanzitutto sull’art. 249 c.p.c. che regola la facoltà di astensione dell’avvocato in combinato disposto con l’art. 200 c.p.p. secondo il quale gli avvocati “Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione”.
La Corte richiama poi la decisione della Corte Costituzionale n. 87 del 1987 secondo la quale “La facoltà di astensione dalla testimonianza in giudizio presuppone la sussistenza di un requisito soggettivo e di un requisito oggettivo. Il primo, riferito alla condizione di avvocato di chi è chiamato a testimoniare, consiste nell’essere la persona professionalmente abilitata ad assumere la difesa della parte in giudizio. Il secondo requisito è riferito all’oggetto della deposizione, che deve concernere circostanze conosciute per ragione del proprio ministero difensivo o dell’attività professionale, situazione questa che può essere oggetto di verifica da parte del giudice”.
La Corte di Cassazione precisa che “il controllo riservato al giudice circa il corretto esercizio della facoltà di astensione va focalizzato esclusivamente sulla ricorrenza dei presupposti soggettivo ed oggettivo, senza che la scelta compiuta dall’avvocato, intimato come teste, possa ritenersi sindacabile sotto il profilo dell’interesse del soggetto che ha articolato la prova testimoniale”.
La Corte richiama infine gli artt. 28 e 51 del codice deontologico forense che sanciscono il “dovere”, oltreché il “diritto”, dell’avvocato di mantenere il più assoluto riserbo su tutte le informazioni delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato.
L’obbligo di riservatezza che l’avvocato collaborativo assume nel sottoscrivere l’accordo di partecipazione è quindi totalmente in linea con il dovere di riservatezza che caratterizza il ruolo e la professione dell’avvocato, così come regolata dalle norme di diritto positivo e dal codice deontologico forense, anche se intesi nel loro senso più tradizionale e funzionale allo svolgimento del processo.