L’11 maggio, con l’approvazione del Ddl Cirinnà, la costellazione delle famiglie italiane si è arricchita di ulteriori forme – le unioni civili fra persone dello stesso sesso e le convivenze, sia fra persone dello stesso sesso che di sesso diverso – che vanno ad arricchire quelle già esistenti disegnando nel complesso un variegato insieme in cui si declinano le relazioni affettive e familiari.
Oggi, dunque, non possiamo davvero più parlare di un modello di famiglia perché è il diritto stesso a riconoscere l’emersione del fenomeno sociale di molti modi di fare famiglia e ad attribuire loro rilevanza giuridica.
Il riconoscimento di diritti porta con sé, inevitabilmente, il possibile emergere di conflitti per la loro tutela.
Dobbiamo allora chiederci se i conflitti relativi ad una varietà così numerosa e differenziata di famiglie possano trovare la loro migliore risoluzione attraverso la delega della decisione ad un terzo e, quindi, sotto forma di tutela da parte di un giudice piuttosto che attraverso il riconoscimento reciproco basato sul consenso delle stesse persone in lite.
La modernità di una società non si misura soltanto sull’avvenuto riconoscimento di fenomeni sociali, quali quello di nuove forme di famiglia, ma anche sull’impegno ad individuare appropriati metodi di risoluzione dei conflitti che le attraversano e a favorire il necessario cambiamento culturale.
Non possiamo continuare a pensare al divorzio all’italiana degli anni 70, regolamentato quando esisteva un unico modello familiare, per gestire la fine di una relazione affettiva in un panorama completamente cambiato, dove i modelli di famiglia sono molti.
E, poi, un certo tipo di risoluzione dei conflitti – quella delegata al terzo che li risolve applicando una normativa standard – si pone in aperta contraddizione con ciò che è alla base della esistenza stessa della varietà dei modelli familiari.
La diversità, l’autodeterminazione, l’autoregolamentazione sono elementi fondanti la scelta di non lasciarsi assorbire ed inquadrare in un unico modello.
Il criterio che ha orientato la coppia nel momento della formazione dovrebbe rimanere valido anche per l’eventuale fase della disgregazione del rapporto, per ovviare alla dissonanza che, altrimenti, si creerebbe e risulterebbe stridente.
In quest’ottica assume sempre maggior importanza, insieme alle altre ADR, la Pratica Collaborativa poiché, sia come filosofia che come metodo, rappresenta la modalità di risoluzione delle controversie adeguata per affrontare la complessità della società moderna.
Con la valorizzazione della autodeterminazione delle persone e la creazione di soluzioni tagliate “su misura”, che la caratterizzano, la Pratica Collaborativa è una modalità che restituisce ai diretti interessati la soluzione dei loro conflitti, consentendo così un grado di specificità della soluzione che nessun terzo, per quanto illuminato, potrebbe mai garantire.