Premessa
Sulla scia di una nuova visione del professionista che valorizzi la relazione con i clienti, oltre che la esplorazione di valori e interessi nella gestione consensuale dei conflitti, il Laboratorio di Civile e Commerciale di AIADC-Associazione Italiana Professionisti Collaborativi – ha ospitato il 29 febbraio 2024 il prof. Giovanni Cosi, che ha tenuto una relazione dal titolo Professioni e saperi tra ordine imposto e ordine negoziato.
La relazione si colloca nell’ambito del ciclo di appuntamenti “Incontri tra visionari” in cui gli associati, periodicamente, si ritrovano per momenti di autoformazione su temi prossimi o trasversali rispetto alla negoziazione cooperativa e ai temi oggetto del metodo della Pratica Collaborativa.
L’esposizione che segue intende evidenziare alcuni aspetti della suggestiva conferenza tenuta dal prof. Cosi, da cui prendo spunto per effettuare un confronto con la prassi della pratica collaborativa e per esprimere alcune osservazioni personali.
Il relatore
Giovanni Cosi è professore ordinario di filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Siena e si occupa da oltre trent’anni, sia a livello di insegnamento che di ricerca, di sociologia e antropologia del conflitto, di mediazione dei conflitti, di strutture onto-fenomenologiche dell’esperienza normativa e di etica delle professioni, in particolare di quella del giurista.
Non è la prima volta che lo studioso interviene ad eventi della nostra associazione avendo già tenuto, nel dicembre del 2017, una suggestiva relazione nel corso del convegno, organizzato presso l’Università degli Studi di Milano, per la presentazione del manuale sulla la pratica collaborativa (AA.VV, La pratica collaborativa. Dialogo fra teoria e prassi, a cura di M. Sala e C. Menichino, Milano, 2017; il suo intervento è visibile a questo link ).
La professione come arte liberale
Il prof. Cosi ha esordito la sua relazione spiegando che l’origine delle professioni liberali risale al periodo del 1600-1700 e trova prima ancora le proprie radici storiche all’epoca delle arti liberali nel Medioevo. La professione era un’arte liberale, nel senso di “libera dal contatto con la fisicità e la materia”, infatti le classiche arti liberali, quali la teologia, la medicina e la legge, non si occupavano di aspetti concreti, ma solo di teorizzare cosa dovesse fare il professionista. Ad esempio, il medico non aveva il contatto diretto con i pazienti, lo aveva solo il cerusico, ossia il chirurgo di allora.
Si è poi passati alle forme liberali delle professioni moderne. Ora il professionista è colui che svolge un’attività e viene pagato per pensare liberamente; il compenso dà la libertà di operare in modo esterno, fuori dal problema concreto del cliente. Se le professioni nascono come libere, tuttavia sono al servizio del mercato e della fede pubblica e come tali sono sottoposte a regolamentazione statale.
Pertanto, il professionista nasce all’interno della cornice del cd. ordine negoziato, ma deve fare i conti con il cd. ordine imposto, modelli teorici elaborati dall’antropologia giuridica.
“Ordine imposto” e “ordine negoziato”
Il laboratorio di antropologia giuridica di Parigi diretto prima da M. Allion e poi da E. Le Roy, nel svolgere una ricerca sulla giustizia cd. minore nelle società tradizionali, teorizzò i modelli degli ordini normativi che si riscontrano nelle società umane; tra questi l’ordine negoziato e l’ordine imposto sono i modelli più diffusi e che tendono a sfumare uno nell’altro (N. Rouland, Aux confins du droit, ed. Odile Jacob, Parigi, 1991, pp. 75 e 106).
Gli ordini normativi si collocano all’interno di due estremi, un ordine accettato, in cui non ci sono conflitti o se si verificano vengono risolti all’interno del gruppo e, al polo opposto, un ordine contestato, ove si ritiene che le regole sociali vadano cambiate ed alle regole si sostituisce la violenza.
Il modello dell’ordine negoziato lascia che i conflitti sorgano, ritenendo che i privati siano capaci di darsi regole da soli, secondo il principio liberale, nel convincimento che è libero chi si dà regole di azione prima che altri gliele impongano. Sulla base di questo presupposto teorico sono nate le professioni quale fenomeno di autoregolazione, così come la deontologia o l’etica professionale, come sistemi normativi paralleli a quello giuridico che offrono regole agli iscritti per garantire all’esterno qualità e serietà del servizio. All’ordine negoziato appartiene la mediazione/conciliazione, dove lo scopo è un confronto di interessi per arrivare a una pace sociale.
Diversamente, secondo il modello dell’ordine imposto, vi è il presupposto che i privati da soli non siano in grado di darsi regole e che queste debbano essere poste dal potere centrale attraverso i suoi funzionari aventi un potere decisionale, questo è il ruolo della giurisdizione (riferimenti sull’ordine negoziato e l’ordine imposto in G. Cosi, L’accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, Torino, Utet, 2017, p. 114).
Pertanto le professioni liberali si sono sviluppate all’interno di una cornice normativa che si muoveva tra ordine negoziato e ordine imposto; nel primo caso viene offerto un servizio professionale in libertà, per cui le professioni nascono per la necessità dei privati di essere assistiti e sono basate su un rapporto fiduciario tra professionista e cliente, mentre nel secondo caso il servizio è inserito in una società complessa dove vi è una ingerenza del potere pubblico.
Storicamente il professionista era inteso come colui che esercita un’arte liberale, appresa con spirito di pubblico servizio. E proprio il pubblico servizio dovrebbe orientare l’attività del professionista, avente come scopo una giustizia che porta benessere sociale.
Come ha sottolineato il prof. Cosi, questo concetto si ritrova nell’etimologia della parola tedesca der Beruf, che ha in sé due significati: da un lato professione e dall’altro la vocazione, nel senso che si può essere professionista solo se si ha una vocazione o chiamata altruistica e orientata a livello sociale. Diversamente, l’altro termine che definisce il lavoro è die Arbeit, che fa riferimento al lavoro come strumento di sussistenza.
Quanto finora esposto dal prof. Cosi mi porta a evidenziare che nella pratica collaborativa l’avvocato collaborativo opera spinto da una forte componente sociale, infatti tale professionista è mosso dall’intento di assistere e sostenere il cliente affinché si trovi una soluzione che, soddisfacendo entrambe le parti, porti ad un accordo sostenibile nel tempo.
Il giurista della prevenzione
Il prof. Cosi si è successivamente soffermato sul tema del ruolo dell’avvocato quale giurista della prevenzione, tema su cui lo stesso aveva già scritto in modo profetico e con grande lungimiranza nel 1998 nel volume La responsabilità del giurista. Etica e professione legale, Torino, 1998, esponendo concetti poi ripresi nel testo Giuristi e società. Lineamenti di etica professionale, Siena, 2010 e in Legge, diritto e giustizia. Un percorso nell’esperienza giuridica, Torino, 2013.
Come rileva il professore, già negli anni cinquanta del secolo scorso il noto filosofo del diritto nordamericano Lon Fuller criticava il fatto che non ci fosse interesse tra i giuristi per il valore dell’attività svolta dall’avvocato al fine della prevenzione dei conflitti; nel suo libro scriveva: “L’avvocato stila trattati, statuti, accordi, contratti. Ognuno di questi serve a dare forma a dei rapporti umani. L’avvocato è dedito a studiare queste forme e a scoprire, con l’analisi teorica e l’esperienza pratica, le conseguenze derivanti da ciascuna di esse. Questo è certamente il lato più creativo del suo lavoro. Ci si dovrebbe aspettare un grande interessamento della filosofia giuridica per questo settore dell’attività professionale. Invece scopriamo che è quasi del tutto ignorato” (Lon Fuller, American Legal Philosophy at Mid Century, in Journal of Legal Education ,1954, vol. 6, n. 4, pp. 457–85, spec. 476-477 JSTOR, in http://www.jstor.org/stable/42890824).
E lo stesso infatti scrive “si tratta di esplorare la possibilità di concepire operativamente, accanto alla figura dell’avvocato come giurista della patologia (che tende a degenerare in fenomeno, a sua volta patologico), la figura di un avvocato in quanto giurista della ‘prevenzione’: un professionista non solo della riparazione, ma della costruzione di rapporti; un ‘architetto’ di relazioni sociali”, ossia un microcostituente che dà forma giuridica a volontà private basate su interessi (G. Cosi, La responsabilità del giurista. Etica e professione legale, cit., pp. XV-XVI).
L’immagine tradizionale dell’avvocato, secondo il comune sentire, è quella del professionista che ha a che fare con problemi: “Per molto sentire comune, la professione sembra vivere di patologia. Il rapporto professionale tipico nasce quando un rapporto umano fallisce: la parola è agli avvocati quando non ci si parla più” (G. Cosi, La responsabilità del giurista, cit., p. XIII).
Ed è proprio questo interessante aspetto che viene sottolineato dal relatore: il conflitto nasce quando le parti non riescono più a comunicare, a dialogare in modo costruttivo o quando si spogliano della loro autodeterminazione e capacità decisionale, delegando completamente, anche in una fase stragiudiziale, la gestione del proprio conflitto agli avvocati, che si sostituiscono ai propri clienti nella narrazione degli interessi degli stessi, utilizzando principalmente, in ambito civile, la forma scritta.
Sulla base di quanto emerso dalle parole del prof. Cosi, mi preme sottolineare come nella pratica collaborativa – l’avvocato lavora a stretto contatto con il cliente, che ricopre un ruolo attivo in quanto negozia in prima persona, sedendo al tavolo collaborativo nelle riunioni congiunte. È questo un tratto distintivo della pratica collaborativa, rispetto a altri strumenti ADR, in quanto l’avvocato si colloca, figurativamente, a fianco del cliente o addirittura dietro lo stesso.
Ed ancora, il prof. Cosi sottolinea che un avvocato che redige un contratto “è l’architetto di un patto che regolerà le future relazioni tra le parti” (G. Cosi, op. ult. cit., p. 328).
Dotato di queste caratteristiche l’avvocato è un “giurista della prevenzione esperto in strutture di rapporto” (G. Cosi, op. ult. cit., p. 327). Un simile avvocato, prevalentemente dedito alla costruzione anziché alla confutazione, quindi sarà impegnato a costruire relazioni che possano funzionare nel tempo a beneficio delle parti.
Sulla base di quanto esposto dal prof. Cosi, a me pare che la sopra richiamata riflessione di Lon Fuller, secondo la quale il giurista con la sua attività in via preventiva, rispetto all’insorgere di un conflitto, ha la capacità di dare forma ai rapporti umani, getti una luce nuova sulla professione dell’avvocato, nel senso che la sua attività non si ferma a quella di un mero tecnico che applica le regole di diritto, ma con la sua dimensione di negoziatore è in grado di mutare, trasformare e delineare i rapporti umani.
In sostanza, l’avvocato con la sua competenza tecnica e relazionale in qualche modo co-costruisce relazioni umane.
Ed è questa, a mio parere, una rivoluzione.
I professionisti generici della prevenzione
Sempre nella linea della prevenzione dei conflitti, il prof. Cosi ha osservato come sia opportuno che la nostra società investa maggiormente nei professionisti che genericamente si occupano di prevenzione, in primis gli insegnanti, quali principali vettori di prevenzione sociale.
In sostanza, bisogna investire sull’educazione e sulla formazione delle persone sia nell’allenare la capacità di negoziare, di riconoscere e gestire le emozioni proprie e degli altri con cui ciascun soggetto si relaziona.
Bisognerebbe partire dalle scuole – continua il professore – da quella primaria a quella secondaria e poi proseguire nelle università per insegnare agli studenti come prevenire i conflitti e imparare a esplorare gli interessi e bisogni ed un intervento di questo tipo farebbe diminuire di molto la conflittualità, perché creerebbe cittadini consapevoli e autonomi nel gestire disaccordi e conflitti.
Agire da preventore significa prendere in considerazione anche un altro aspetto, conclude il prof. Cosi, vale a dire uscire da una visione egocentrica del problema (ossia il problema è legato al soggetto che è in un conflitto) per passare a una visione ontocentrica (che riguarda la radice e l’essenza del problema considerato in modo oggettivo).
Le clausole ADR e il ricorso alla pratica collaborativa
Le osservazioni del prof. Cosi sul tema della prevenzione dei conflitti, mi portano a evidenziare quanto segue.
L’attività effettuata in modo sperimentale da alcuni soci di AIADC e lo studio svolto dai componenti del laboratorio di civile e commerciale, caratterizzato dalla interdisciplinarietà dei professionisti che lo compongono, hanno portato l’associazione a fare un lavoro molto importante di regolazione e disciplina di alcuni patti preconflittuali.
In particolare, sono state elaborate clausole, da inserire nei contratti di durata e nei contratti di società (specie quelli di acquisizione di pacchetti azionari) e negli statuti, che prevedono il ricorso alla mediazione o alla negoziazione assistita secondo i principi della pratica collaborativa come forma di prevenzione dei conflitti o del rischio di impresa nei casi in cui è interesse delle parti mantenere il rapporto contrattuale e la relazione professionale e commerciale. In un contratto la clausola ADR serve per dirimere controversie derivanti dalla interpretazione, validità, esecuzione e risoluzione dell’accordo, nello statuto ha l’utilità di regolare come risolvere conflitti legati alla governance aziendale (conflitti tra soci o tra soci e la Società o tra soci e amministratori) (Cfr. A. Baudino, La clausola di negoziazione assistita secondo i principi del metodo collaborativo, in Articoli e News di Aiadc marzo 2023; Id., Fondamenti e orizzonti della nuova cultura d’impresa: come costruire una governance collaborativa a garanzia della continuità e della sostenibilità dell’impresa, in Dir. e economia impresa, 2024, p. 39 e ss.; C. Bruscaglioni, La cura della relazione e l’applicazione dei principi collaborativi nei contratti d’impresa, alla luce dei criteri ESG, in La cura della relazione e la relazione di cura. Dialogo fra giuristi, medici e psicoterapeuti, a cura di A. Maniaci, Pisa, 2023, p. 219 e ss.).
In fondo, negoziare e redigere clausole di questo tipo consente di lavorare con le persone, esplorare le relazioni, i reciproci interessi, i bisogni ed i valori e costruire un impianto di ordine negoziato che duri nel tempo.
I contratti relazionali in funzione preventiva
Il prof. Cosi ha evidenziato come l’avvocato negoziatore nella funzione di preventore dei conflitti ha anche il compito di assistere le parti nella negoziazione e redazione di contratti.
Sottolineo a questo proposito come la negoziazione dei contratti sia molto opportuna per le parti specialmente nei casi di contrattidestinati a durare nel tempo (cd. contratti di durata), ove il contratto è utilizzato come strumento di collaborazione/cooperazione, in cui le parti condividono valori, strategie e un percorso per esplorare e soddisfare gli interessi comuni ed avere quale esito un accordo che sia sostenibile oltre che duraturo nel tempo (C. Menichino, Prevenzione dei conflitti e relazione professionale, in La cura della relazione e la relazione di cura, cit., p. 121 e ss.; L. Buzzolani, I contratti a struttura collaborativa come strumento di governance aziendale in ottica ESG, in Articoli e News di Aiadc, maggio 2023).
Questi contratti sono definiti, a mio parere con una espressione molto appropriata, come “contratti relazionali”, dove “è la relazione a dare forma e contenuto al contratto”, e non la promessa delle parti e l’atto che la incorpora (sul punto in particolare A. Fondrieschi, Contratti relazionali e tutela del rapporto contrattuale, Milano, 2018).
Diversamente, un contratto negoziato e redatto secondo il modello tradizionale, ossia secondo un approccio avversariale o antagonista, è fondato sulla promessa, prevede rimedi tipici in caso di sua violazione ed è tendenzialmente immodificabile nei contenuti; ha lo scopo di soddisfare gli interessi individuali del singolo contraente, quindi ha una preminente funzione di protezione, stabilendo diritti, obblighi e responsabilità e preventivando la liquidazione del danno (con una clausola penale), aprendo la strada a rimedi dissolutivi del patto in caso di patologia del rapporto (la risoluzione del contratto per inadempimento).
La mediazione volontaria ancora poco attuata in Italia
Un’ulteriore considerazione del prof. Cosi riguarda la circostanza che nel nostro paese non esiste ancora una cultura favorevole alla mediazione volontaria, ossia quella spontanea.
Da noi la maggior parte delle procedure di mediazione di natura civile e commerciale sono obbligatorie, ossia quelle attivate come condizione di procedibilità del giudizio. La mediazione obbligatoria per materie o delegata dal giudice, come prevista dal d. lgs. n. 28/2010, infatti, è quella che ha reso possibile la diffusione della mediazione civile e commerciale. Abbiamo ancora bisogno di un incentivo per ricorrere alla mediazione e di sanzioni per la mancata partecipazione delle parti essendo stata la mediazione civile e commerciale disciplinata in stretta connessione con il processo.
La conciliazione nell’epoca dell’Italia liberale
Non è sempre stato così, infatti dal punto di vista storico, il prof. Cosi ha ricordato come il codice di procedura civile del 1865, simbolo della codificazione degli Stati liberali, prevedeva la disciplina del giudice conciliatore che aveva un doppio ruolo sia di giurisdizione sulla giustizia minore sia di comporre le controversie in via stragiudiziale.
Il codice di procedura civile italiano del 1865, considerato un vero e proprio codice liberale, riservava infatti una posizione di primo piano all’istituto della conciliazione, esordendo con un Titolo preliminare “Della Conciliazione e del Compromesso” il cui art. 1 recitava: “I conciliatori, quando ne siano richiesti, devono adoperarsi per comporre le controversie”.
La legge del 1865 e quella del 1892 e i successivi ordinamenti giudiziari stabilivano, infatti, che ogni Comune avesse un Giudice conciliatore, che per molti decenni è stato il pilastro che ha gestito la giustizia minore. Di carattere puramente onorifico, la carica comportava la composizione e il giudizio delle controversie civili su richiesta delle parti.
A conferma di ciò, il Digesto italiano, nella sua prima edizione del 1896, alla voce “conciliatore – conciliazione giudiziale” scritta da Lorenzo Scamuzzi, dedicava ben 340 colonne a questo istituto e ripercorreva la storia dello stesso che risaliva all’epoca preromana, facendo anche una comparazione con istituti affini nei paesi europei e evidenziandone gli aspetti economici, morali e di prevenzione (riferimenti in G. Cosi, L’accordo e la decisione, cit., p. 171).
Successivamente il codice di procedura civile approvato nel 1940 ed entrato in vigore nel 1942, i cui lavori preparatori risalivano al 1938, figlio dell’epoca fascista e di un approccio dirigista, ha eliminato ogni riferimento alla figura del conciliatore, perché era interesse dello Stato delegare la risoluzione dei conflitti solo ai giudici quali suoi rappresentanti, realizzando così, attraverso le regole di procedura civile che disciplinavano il processo, un ordine imposto, unico sistema di risoluzione dei conflitti. Lo Stato fascista non ammetteva sistemi di giustizia non controllabili dal potere centrale.
E l’antico modello della conciliazione, non più disciplinato dalla legge, non fu più praticato e tale preziosa tradizione fu interrotta.
Mie conclusioni a margine della relazione del prof. Cosi: in quale direzione stiamo andando
Concludo rilevando che i riferimenti storici sopra evidenziati sul tema della conciliazione nel periodo successivo all’unità italiana mi portano a riflettere sul fatto che un approccio favorevole alla conciliazione risiede nella nostra cultura giuridica e nelle nostre radici storiche sulla giustizia.
Non è perciò sempre necessario imitare i sistemi angloamericani che ci hanno consentito trent’anni fa di aprirci alla mediazione e alla giustizia consensuale, ma è opportuno ritornare al nostro passato per ritrovare nelle nostre tradizioni giuridiche le risorse per innovare.
D’altra parte, la storia della pratica collaborativa racconta come questo metodo di negoziazione sia stato recepito in Italia nel 2010 come fenomeno di imitazione del modello nordamericano attraverso una “prassi professionale”, ossia una pratica dei professionisti che lavoravano in un team interdisciplinare.
All’inizio, la materia di applicazione della pratica collaborativa era unicamente quella familiare, ma dopo quasi quindici anni di esplorazione professionale sul campo si può concludere che i professionisti collaborativi italiani, stanno a loro volta innovando, spingendosi verso l’estensione delle materie di applicazione del metodo collaborativo a quella del civile e commerciale (si segnala che, oltre all’attività del Laboratorio di civile e commerciale, si è svolto un convegno Viaggio all’interno della negoziazione, in quattro tappe e la giornata torinese aveva ad oggetto la Negoziazione dei contratti, negoziazione nella Governance dell’impresa e nella Composizione negoziata della crisi e Pratica collaborativa; inoltre si è appena tenuto il primo Corso interdisciplinare di Negoziazione e Pratica Collaborativa).
Le riflessioni effettuate nell’ambito del laboratorio di civile e commerciale di AIADC e la prima sperimentazione di redazione di clausole di mediazione o di negoziazione secondo il metodo collaborativo nei contratti e negli statuti testimoniano, a mio parere, questo cambiamento innovativo, che abbiamo raggiunto in modo autonomo, senza alcuna imitazione di un modello straniero.
In definitiva, ritengo che se cerchiamo nel nostro patrimonio storico e giuridico le radici antiche legate alla conciliazione, togliendo la polvere che si è accumulata nelle maglie del tempo, possiamo trovare alcune risorse, alcune suggestioni e alcune risposte ai nostri interrogativi, per aprirci al nuovo che avanza e contribuire alla creazione della figura del nuovo avvocato e professionista, quale preventore dei conflitti.
A questo proposito mi sovvengono le parole che il prof. Aurelio Candian scrisse ai suoi allievi, di ritorno dal confino durante la seconda guerra mondiale: “In che stato siamo ridotti, e perché: se si potrà sopravvivere e per andare dove; chi ci dirà il cammino: se dovranno ancora essere per forza o tedeschi o anglosassoni o genti di altra razza ancora coloro a cui dirigere l’invocazione di un orientamento; o se non potremo – una volta tanto – dirigerla noi l’un l’altro e rispondere l’altro all’uno; sono le domande di ognuno e di ogni giorno” (A. Candian, E adesso, per dove? Parole ai miei allievi, Milano, 1945, p. 3).