Mi sono avvicinata alla Pratica Collaborativa circa un anno fa con curiosità e desiderio di andare oltre i conflitti cristallizzati con cui ho in genere a che fare io che lavoro principalmente con famiglie altamente conflittuali. Dopo i corsi con le docenti americane e canadesi, dopo un anno di vita associativa, dopo un evento come quello del ‘Processo alla Pratica Collaborativa’ ho deciso di tirare le somme di quello che ho appreso di questa pratica che tanto mi affascina.
E mi sembra non ci sia modo migliore che prendere spunto dalle testimonianze preparate, ascoltate al Processo:
- La Pratica Collaborativa è stata accusata di essere ESTRANEA ALLA CULTURA EUROPEA. Io vivo in Italia, in Europa, non negli Stati Uniti, pur conoscendo piuttosto bene il mondo anglosassone. E so anche di non vivere nella stessa Europa, nella stessa Italia dei miei nonni. L’Europa è cambiata nel tempo, i suoi cittadini si sono sempre più confrontati con nuove istanze sociali che hanno fatto nascere nuove esigenze, nuovi bisogni e, appunto, nuove norme. La cultura, contrariamente a quanto voleva farci intendere l’accusa, non è un monolite inamovibile, piuttosto un Soggetto che si modifica, si evolve. Se la cultura cambia non possono quindi le pratiche rimanere statiche, autoreferenziali. Allora la Pratica Collaborativa risponde a nuove esigenze culturali, non ad una cultura lontana da noi. Come ha messo in luce la difesa ANCHE LA VECCHIA VIENNA UN TEMPO ERA NUOVA.
- Questo modo di lavorare è stato accusato di avere costi ‘informi’. Mi sembra che parlare solo di costi economici svii dalla complessità delle crisi famigliari. Per chi da tanti anni bazzica i Tribunali, i Servizi Sociali, i Centri di Mediazione è evidente che i costi maggiori delle crisi familiari sono quelli sociali, personali, sono le ferite mai rimarginate, i rancori crescenti, le unioni mai realmente chiuse, i bambini ‘spezzati’. Feriti di guerra potremmo dire, una guerra relazionale ed emotiva che può trovare spazio nelle aule giudiziarie, aumentando il conflitto invece di rimarginarlo. Parlando invece di costi economici la pratica collaborativa non costa più di una consensuale ben confezionata e sicuramente di una giudiziale che può aumentare le rivendicazioni. Uno degli aspetti fondamentali inerente i costi è che le DECISIONI SONO PRESE DALLE PARTI ACCOMPAGNATE DA UN TEAM DI PROFESSIONISTI in grado di mettere in luce i diversi interessi, le diverse esigenze, le caratteristiche specifiche di quella famiglia. Non è un terzo a decidere, non sono i professionisti a decidere. Si è, quindi, padroni delle propria vita. LA PRATICA COLLABORATIVA È COME UN ABITO SU MISURA DELLA FAMIGLIA CHE LE PARTI SI CONFEZIONANO IN UN INCONTRO DI INTENTI che ha come elemento principale la sostenibilità nel tempo e la flessibilità
- Ho deciso di dedicare un punto specifico alla formazione. Sì perché questo post nasce proprio dalla riflessione sul senso della formazione in questo ultimo anno. Più volte all’Associazione è contestato che bastano 20 ore per formarsi alla Pratica Collaborativa e la stessa giuria del Processo ha invitato a ‘mantenere aperto il percorso formativo attraverso i gruppi di pratica allo scopo di consolidare e migliorare un approccio che può dirsi ancora in una sua fase iniziale’. Meglio precisare alcuni aspetti: per iscriversi all’Associazione è necessario possedere alcuni requisiti professionali, la partecipazione a corsi di formazione specifici e ad una formazione continua. Non siamo quindi professionisti trovano spazio solo nella Pratica Collaborativa, siamo professionisti che hanno SCELTO come svolgere la loro professione. Dopo il Processo mi sono fermata a riflettere a quanto sia importante la formazione ‘classica’ per acquisire conoscenze, procedure, metodo e quanto, quest’ultima, sia sterile se non confrontata quotidianamente sia nella pratica professionale sia nel confronto con i colleghi. Insomma, se mi regalano una moto – sono ostinatamente appassionata quindi premettetemi la metafora – ma la tengo ferma, non la metto alla prova, non la mantengo, non mi alleno questa non sarà che un bell’oggetto da mostrare. La formazione senza confronto costante è solo un titolo nel CV. L’associazione favorisce invece un confronto costante attraverso i practice group, gruppi di lavoro tematici.
- LA TRASPARENZA È LA VERA FORZA se lo scopo è l’incontro. Nascondo quando decido di fregare l’altro. Non cadiamo però in errore, la Pratica Collaborativa non richiede un atto di fede, ovvero una fiducia totale nel coniuge da cui ci si sta separando. Piuttosto, la fiducia nel proprio avvocato collaborativo che si confronta con il collega collaborativo senza rilasciare documenti che possano essere rintracciabili. Inoltre, nelle famiglie, anche quelle in crisi – soprattutto quelle in crisi – esistono pochi veri segreti. Dopo tanti anni di lavoro con le famiglie mi sento di dire che quelli che sono spesso chiamati segreti non lo sono affatto. Sono conosciuti da tutti, magari non nominati. Allora la trasparenza facilita la dimensione costruttiva del conflitto, dimostra di volersi veramente separare, di desiderare scenari futuri buoni per tutti. Poi, diciamolo, la Pratica Collaborativa non è la panacea di tutti i mali e non fa per tutti. Non siamo qui infatti per vendervela a tuti i costi. La Pratica Collaborativa è una SCELTA.
- arrivati qui mi sembra chiaro che la NEGAZIONE DEL CONFLITTO non è uno scopo della Pratica Collaborativa come sostenuto durante il Processo dall’Accusa. Basandoci sulle considerazioni dell’accusa, crisi in Greco – Grecia culla della civiltà europea – ha l’accezione di un PROCESSO IN ATTO, ovvero di un’evoluzione nel tempo di una data situazione. Quindi non si nasconde il conflitto, lo si supporta ad evolvere in maniera costruttiva piuttosto che cristallizzarlo in rivendicazioni sterili o in lotte in cui nessuno mai vincerà. Il conflitto per essere visto non ha bisogno di guerre, di ulteriori lacerazioni. Se l’epoca contemporanea è tacciata di essere un tempo ‘usa e getta’ allora è proprio vero che affrontare i conflitti con la Guerra è in linea con questa logica ‘ti prendo e quando non mi vai più ti getto via’ mentre la Pratica Collaborativa si assume la responsabilità del rammendo. Mia nonna, ricamatrice ed ormai novantenne, ci metteva ore a rammendare un buco studiando il modo più appropriato per renderlo meraviglioso. Non buttava nulla, riparava dando nuova vita. Il rammendo allora non è tappare un buco, ma dare nuovo senso così come ci insegnano tanto bene i giapponesi con la pratica del Kintsugi, ovvero la riparazione delle ceramiche. Ogni ceramica riparata presenta un diverso intreccio di linee dorate unico ed ovviamente irripetibile per via della casualità con cui la ceramica può frantumarsi.